Alessandro Rietti – Ossimoro: Acuto & Ottuso

Informazioni Evento

Luogo
INANGOLO
Largo San Giovanni Battista 7 Penne, Penne, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

apertura venerdì e sabato dalle 18.00 alle 20.00

Vernissage
19/11/2023

ore 17

Artisti
Alessandro Rietti
Curatori
Antonio Zimarino
Generi
arte contemporanea, personale

L’ossimoro è un segno di contraddizione capace di creare cortocircuiti logici e così ampliare le strade possibili ai processi della comprensione.

Comunicato stampa

L’ossimoro è un segno di contraddizione capace di creare cortocircuiti logici e così ampliare le strade possibili ai processi della comprensione; mentre ogni essere umano anche inconsciamente (come sosteneva la teoria della Gestalt) cerca di riordinare sia visivamente che concettualmente il senso delle cose riportandole ad un ordine di comprensibilità, l’ossimoro destruttura ogni logica e costringe chi lo legge o chi lo vede, a colmare i vuoti di senso tra concetti contrari o a riformulare la visione stessa. Mente, cultura e memoria cercano le connessioni possibili al contrario di altre figure retoriche quali la similitudine o l’analogia, l’ossimoro non intende stabilire alcuna interpretazione univoca: non conclude.

Dal mio punto di vista, questa figura retorica ha tre aspetti essenziali davvero interessanti che hanno a che fare con la trasformazione e il movimento: c’è il momento provocatorio delle contraddizioni; quello intuitivo delle correlazioni tra forme o concetti e quello dinamico dei processi di rielaborazione e ricerca di connessioni ma appunto, senza dare soluzioni. Mettendo da parte i gusti personali, quale sarebbe realmente la parte più importante in questo “gioco” intellettuale e formale che l’ossimoro pone? Quella “che disgrega” o quella “che ipotizza”? La quaestio non è né oziosa né inutile, perché spinge a rilevare e puntualizzare una “condizione” del vivere e della creatività che non interiorizziamo mai definitivamente anche se essa è da sempre ampiamente presente già nelle forme filosofico - esistenziali alle origini del pensiero occidentale, (Atomismo, Epicureismo, Stoicismo) e trova la sua migliore definizione (e probabilmente, origine) nei principi della filosofia del Tao cinese. I due “momenti” (costruens e destruens) sono le parti essenziali di un “essere” inseparabile, di una condizione ciclica del pensare e del vivere che non può trovare mai realmente stasi dichiarative ma solo precari equilibri di proposta di “senso” che di per sé, non sono sempre cose facili da gestire. Oggi, al contrario, soprattutto nei nostri recenti tempi neopositivisti, ci siamo educati esistenzialmente ad operare, agire, (fare arte) per pervenire ad un “esito” certo, rassicurante e gratificante in relazione ai valori dominanti disposti dai riferimenti socioculturali prevalenti. Se raggiunti, essi ci rendono riconoscibili agli altri e al contesto quindi, l'incerto, il contraddittorio, l’equilibrio precario diventano solo fasi transitorie per raggiungere obiettivi. All’incompletezza, all’inesauribile complessità semantica dell’ossimoro così disturbante si preferiscono, in particolare in arte, forme più comunicative, descrittive e analogiche per illustrare pensieri, visualizzare concetti e considerazioni: perché mai impiegare fatica per rendere evidente qualcosa di mai definito e definitivo, cioè un “problema”? E invece, la condizione creativa dell’essere è esattamente in quella area a – logica e vaga di equilibri precari che non coincidono con le certezze, che non sono raggiungimento di o riconoscimenti di ma solo proposte di senso, sospensioni dinamiche tra essere/non essere, già/non ancora.

Ecco così che l’apparente semplicità di questa installazione formalmente e metaforicamente non lo sia affatto: linee ed angoli sono la base della geometria razionale euclidea e sullo spazio bianco della parete, sembra voler chiudere e delimitare spazi riconoscibili. Ma è davvero così? Essi non sono forse correlativi dello spazio indefinito, così come sono correlativi tra loro gli angoli ottusi ed acuti? Al momento in cui una parte viene delineata, essa evidenzia esattamente l’esistenza dell'altra, che è poi quella che semanticamente più complessa perché contiene l’altra come una sezione.

Quale delle parti è più importante o più “sensata”: la dimensione “euclidea” del reale o quella non euclidea del possibile? In realtà entrambe sono implicite nell’altra perché sono “possibilità”, scelte opponibili ma perfettamente coesistenti. Proviamo però ad andare oltre nell’analisi visiva: gli angoli correlativi non chiudono e o non aprono nulla senza presenza o assenza di rette e segmenti; essi razionalmente parlando, non significano nulla rispetto ad un area o ad uno spazio volumetrico se non sono collegati da un angolo. Di fatto, qualsiasi forma anche estremamente logica ed essenziale, dipende dalla disposizione o dalla lettura della relazione tra i suoi minimi elementi base (angoli-rette); anche questa condizione è reversibile e quindi, ossimorica: ci ricorda che una realtà non esclude mai l'altra, ma piuttosto, la implica e ciò che percepiamo del mondo (finitezza, infinitezza o equilibrio) dipendono da scelte e consapevolezze.

Questa installazione aggiunge però un elemento concettualmente ancora più complesso: in alcuni punti (angoli o linee) emergono delle specie di “concrezioni” indefinibili per forma e toni. Sono qualcosa di organico in realtà, perché sono composte di carta e bitume e si pongono come una terza inferenza negli elementi minimali della geometria razionale euclidea (angolo-segmento). Questa “materia pittorica” nasce dove vuole, dove crede, come crede dall’occhio dell’artista: riempie oppure apre, svuota, chiude o sviluppa: sono resti o sono inizi di qualcosa? La sua struttura frastagliata ricorda visivamente e metaforicamente il frattale ovvero una struttura con dimensione frazionaria, non intera, non euclidea che serve da modello matematico per studiare le geometrie che appartengono ai fenomeni naturali. Anche (o soprattutto) la pittura / la natura sono “imprendibili” dalle logiche e richiedono un approccio non euclideo che non potrà mai arrivare ad essere “misurabile” nella realtà, ma quale realtà? Quella che si espande o quella che si ritrae?

La problematica evoca nel suo insieme il grande dibattito dell’arte alla fine degli Anni Sessanta tra gestalt e poverismo, ovvero tra ragione e natura, tra pensato e trovato. Ma qui giustamente si parla di coesistenza, cioè dell’ossimoro, della creativa irrisolvibilità del dualismo, perché a pensarci bene il dualismo è una cosa che sta solo nella nostra pretesa di stabilire, verità, scopi e funzioni di una cosa rispetto all’altra mentre tutto è presente, è coesistenza nell’esperienza visiva. Gli elementi delle forme, euclidei o non euclidei che siano, sono generativi di qualcosa solo se pensati in una relazione: al momento in cui diventano rappresentazione di - rappresentazione per tutto rischia di svilirsi in un consueto e trito gioco di “riconoscimenti e citazioni”, di soggettivismi narrativi, arguzie, ritualità e stilemi di forme, atteggiamenti e pensieri.

E invece l’ossimoro ci salva sempre, ci destruttura, ci fa prendere strade divergenti, ci costringe a “ripensare” a rileggere, rivedere. L’ossimoro è provocazione alla visione critica, complessa anti illustrativa; l’ossimoro è sanamente “antipatico”, impedisce la piacevolezza leccata, la frase convenzionale, la scialba retorica. L’ossimoro ti pone al centro il problema di cosa vuoi farne davvero dell’arte e ti aiuta a rivelarti. Circondati interamente da un spazio ossimorico, qui, in questa piccola mostra secondo me, si ripuntualizza il senso e la necessità di fare arte per comprendere, per scegliere, per aprirsi ai sensi reversibili e profondi del vivere e non certo per esibirsi.