Testo critico di Francesco Poli
“Marco arrivava ogni giorno la mattina presto in studio in via Oropa e passava sempre a salutarmi nel mio studio … Tutti e due sempre al lavoro…”. Così mi dice, con tono triste Luigi Mainolfi quando gli chiedo di parlarmi della sua grande amicizia con Gastini, il primo artista che lo aveva accolto con immediata empatia al suo arrivo a Torino negli anni Settanta. Sono stati colleghi d’insegnamento al Liceo Artistico, e per decenni compagni di cene, di bevute e di viaggi, e soprattutto tra i maggiori esponenti di punta della scena artistica torinese a livello nazionale e internazionale. Anche se i loro percorsi di ricerca hanno caratteristiche molto diverse, c’è sempre stata una profonda stima reciproca.
Il gruppo di opere di non grandi dimensioni presentate in questa mostra alla Roccatre dialogando fra loro si propongono anche come un piccolo omaggio all’amicizia del pittore e dello scultore.
Gastini (più vecchio di dieci anni) è stato tra i protagonisti negli anni ‘60/’70 della pittura di area minimale e analitica, e successivamente ha sviluppato la sua ricerca in una originale direzione più articolata caratterizzata dall’interazione degli interventi pittorici con materiali di vario genere come vetro, plexiglas, pergamena, pezzi di ferro, rame, stagno, e elementi naturali come il carbone, le carrube, e legni segnati dal tempo. Sono lavori che vanno da raffinate e fragili composizioni di una limitata dimensione da parete a assemblaggi che si espandono nello spazio reale anche come installazioni con valenze ambientali. “L’energia presente nei materiali – ha detto l’artista -incontra l’energia presente nell’azione della pittura (…) i materiali che uso sono scelti, pensati secondo un’idea di pittura”. E in effetti si può dire che Gastini è riuscito a coinvolgere in una dimensione essenzialmente pittorica anche tutti gli inserti concreti utilizzati che, pur mantenendo la loro specifica espressività primaria, sono impregnati dalle tensioni delle presenze cromatiche, come il blu cobalto, il nero dei segni di carboncino, i delicati grigi perla, i rosa e i gialli ocra. E a questo proposito vale la pena aggiungere questa considerazione di Pier Giovanni Castagnoli: “Gastini sistema gli oggetti come si trattasse di una natura morta, ma in realtà egli allude a un paesaggio, un paesaggio che si dilata sulla superficie pittorica in una concrezione di segni e di gesti, in una mutevole alternanza di espansioni e di concentrazioni, di affondamenti e di emersioni”
La scultura di Mainolfi si configura come una narrazione di un mondo favoloso animato da bestie e personaggi gioiosamente mostruosi (orchi, orchesse, apesse, elefantesse, fauni, pseudo-gazzelle e altri); da paesaggi onirici, da alberi e vulcani e montagne; da soli giganteschi e pianeti; da proliferanti città , da strani oggetti, campanacci e battacchi e cozze… Per molto versi si può considerare l’insieme dell’opera dell’artista come una grande variegata espressione organica unitaria che cresce senza interruzione; articolandosi e diversificandosi attraverso un continuo processo metamorfico che prende corpo nei materiali più diversi, dalla terracotta al bronzo, dalla pietra al legno, dal rame al ferro. Ed è proprio l’idea della scultura come organismo “vivente”, carico di vibrante energia immaginifica, che presuppone un’attenzione previlegiata e sensuale per la superficie della sua “pelle”, tanto che, in una significativa parte della sua produzione Mainolfi arriva a enfatizzare quasi esclusivamente questo aspetto, realizzando delle sculture piatte ( o se si vuole dei bassorilievi con un grado minimo e uniforme di spessore) che si presentano come delle formelle o pannelli quadrati, rotondi o rettangolari, in cui tutto si risolve al livello dello strato più esterno. Sono superfici con diverse tipologie modellate all over: dalle “pelli di serpente” maculate alle tramature fatti di scaglie metalliche; dalle schiere di impronte di profili di case alla proliferante presenza di piccoli buchi come crateri; dalle biomorfiche distese dolcemente punteggiate da innumerevoli capezzoli ai profili di foglie di tabacco. A dominare come materiale di modellazione è la terracotta con la sua espressività cromatica primaria, ma le superfici e i rilievi sono parzialmente vitalizzati o del tutto ricoperti dalle accensioni dei rossi, dal buio luminoso dei neri, dalle suggestioni naturalistiche dei verdi e dei blu di varie tonalità. Tutte queste configurazioni ci appaiono come magici paesaggi di una natura inventata: sono microcosmi plastici carichi di suggestioni sorprendenti.