Antonio Fontanesi – Omaggio a Fontanesi
La mostra rappresenta un omaggio a una delle grandi figure dell’Ottocento che ebbero un importante ruolo nella storia artistica del Piemonte.
Comunicato stampa
Il 15 febbraio 2013 apre alla Fondazione Accorsi – Ometto una mostra, curata da Giuseppe Luigi Marini e organizzata in collaborazione con Arte Futura di Giuliana Godio, dedicata ad Antonio Fontanesi: essa rappresenta un omaggio a una delle grandi figure dell’Ottocento che ebbero un importante ruolo nella storia artistica del Piemonte.
Nato a Reggio Emilia il 23 febbraio 1818, Fontanesi, per l’esempio, la novità e la modernità della propria espressione e il ruolo didattico svolto a Torino, fu presenza imprescindibile alle sorti e agli sviluppi del paesaggismo piemontese del secondo Ottocento.
Durante il prolungato soggiorno ginevrino (1850-1865), Fontanesi adottò e affinò la tecnica del carboncino e contemporaneamente iniziò a dedicarsi all’arte incisoria, in particolare alla litografia e alla tecnica del cliché-verre; nel 1852 espose per la prima volta alla Promotrice torinese; mentre nel 1855, insieme a Vittorio Avondo, visitò l’Esposizione Universale parigina; successivamente frequentò Ravier e gli altri pittori della cosiddetta “Scuola lionese” e, grazie al soggiorno londinese del 1865, pose la sua attenzione su Turner. Ebbe frequenti contatti con i macchiaioli toscani, in special modo con Cristiano Banti, uno dei suoi più appassionati collezionisti, e, dopo una breve esperienza didattica all’Accademia di Lucca nel 1868, l’anno successivo, nel 1869, Fontanesi venne nominato titolare dell’appena istituita cattedra di Paesaggio all’Accademia Albertina di Torino. Iniziò così la sua più che decennale attività di «maestro» di una piccola schiera di devotissimi allievi, carriera che venne interrotta solo dall’esperienza in Giappone, avvenuta tra l’estate del 1876 e l’autunno del 1878, per ricoprire la carica di insegnante presso la Scuola di Belle Arti di Tokyo. Ritornato definitivamente a Torino, lavorò fino al 17 aprile 1882, anno della sua morte, che avvenne proprio in quell’edificio di via Po 55 nel quale abitava e nelle cui sale oggi è ospitata l’esposizione: un significativo «ritorno a casa».
Attraverso una trentina di opere accuratamente selezionate, la Fondazione Accorsi – Ometto propone da una parte di documentare l’intera parabola creativa dell’artista; dall’altra di circostanziare la sua evoluzione linguistica, con attenzione, oltre agli oli, anche agli acquerelli, disegni, fusains, litografie e acqueforti che costituiscono, insieme e al di là di regole di figliazione precise, la necessità di esprimere, con maggiore aderenza, l’idea luce-spazio-atmosfera, proprio in virtù delle caratteristiche implicite nel mezzo usato.
Così, accanto a un finora mai esposto, grande disegno ginevrino del 1851, l’unico che si conosca di quelli da cui il pittore trasse poi una serie di tavole litografiche per l’album di vedute ginevrine del 1854-55, figurano i quattro famosi «ovali» commissionati all’autore nel 1867 da Cristiano Banti: in questi dipinti, prestati dal FAI Fondo per l’Ambiente Italiano, bene si manifestano le fresche fascinazioni da Turner, Bonington e Constable, maturate durante il soggiorno a Londra.
Il periodo torinese, conclusivo della sua vita, è rappresentato da opere assai conosciute quali lo Studio per l’Aprile, 1872 e una delle versioni de Il lavoro (1872-73) della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino; della seconda, anche la relativa acquaforte del 1873. Inoltre lo studio per Bufera imminente e il Pascolo a sera, riferibili al momento in cui l’autore assunse la cattedra di Paesaggio all’Albertina di Torino. Infine i due noti soggetti, propriamente torinesi, anche di contenuto: l’animato acquarello Piazza Carlo Felice con la stazione di Porta Nuova, della Fondazione Accorsi – Ometto, e la vedutina di Piazza San Giovanni della Galleria d’arte Moderna e Contemporanea di Torino. Ancora degli anni nella città sabauda è il Vaso con fiori, più volte presentato nelle rassegne fontanesiane (da quella «cinquantenaria» del 1932 di Torino sino alla recente, sempre torinese, del 1997, nonché a Tokyo nel 1977): per il suo autore, un soggetto davvero insolito, datato a Morozzo nel 1880 e probabile omaggio dell’artista a Giuseppina Vignola.
Del biennio trascorso a Tokio, l’olio su carta Ingresso al tempio, della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino (già esposto come assegnato a Fontanesi nella mostra torinese cinquantenaria), proveniente dal lascito Camerana, è stato poi riconosciuto come opera del nipponico Chu Azai, insieme ai conterranei Hisashi Matsuoka e Shotaro Koyama, tra i migliori allievi giapponesi del maestro italiano. Si è deciso di esporre comunque l’opera per il suo limpido carattere fontanesiano, al fine di documentare il biennio nipponico del maestro che dalle Terre del Sol Levante non poté portare con sé che pochissimi disegni propri o di allievi.
Di Fontanesi infine rimangono un ridotto numero di fotografie, un ritratto eseguito nel 1876 da uno dei suoi allievi e tre opere realizzate postume, dopo la morte del pittore, da Leonardo Bistolfi: un busto in bronzo, esposto in mostra, dell’Accademia Albertina, il relativo modello in gesso e un bozzetto in terracotta a figura intera, tutti e due alla GAM.
Noti solo due piccoli autoritratti: il più antico, databile intorno al 1852, è un disegno della collezione Pascalis di Ginevra, che raffigura l’artista trentaquattrenne con il volto incorniciato da una folta barba «mazziniana», in basso impreziosito dal distico autografo:
«Amo le allegre muse
e tratto col pennello
Imaginate [sic] voi
che vezzo di cervello».
Il secondo, esposto in questa rassegna, è datato nel penultimo anno di vita ed è impreziosito da versi autografi che recitano:
“Io Fontanesi da Reggio co’ penei
Dipinsi me medesmo a chiaro e bruno
Sessantadue contando gli anni miei
Del mille ottocento ottant’uno” .
In esso la serena immagine senile è raffigurata con una spietata dolcezza, quasi a configurarsi documento premonitore e conclusivo. Pure nell’esiguità della superficie dipinta, il saggio pittorico è in tutto obbediente a quanto Fontanesi, proprio negli anni di cattedra all’Accademia Albertina, era solito rammentare e raccomandare ai propri discepoli. Come ricorda infatti il suo allievo e biografo Marco Calderini: «Il ritratto in generale deve lasciar vedere poco l’apertura delle narici [...] la luce è preferibile cada sulla fronte [...] le luci delle carnagioni hanno un’intensità trasparente che non può essere vinta nemmeno dalle luci della biancheria».
L’opera – di assai ridotte dimensioni (106,25 centimetri quadrati) – con ogni probabilità fu realizzata nell’alloggio affittato al quarto piano di via Po 55.