Aria, fiori, sale. Opere dalle Collezioni del Castello di Rivoli
La mostra Aria, fiori, sale. Opere dalle Collezioni del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea propone un nuovo percorso attraverso una selezione di nuove acquisizioni e importanti opere dalle collezioni del Museo
Comunicato stampa
La mostra Aria, fiori, sale. Opere dalle Collezioni del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea propone un nuovo percorso attraverso una selezione di nuove acquisizioni e importanti opere dalle collezioni del Museo di artisti quali Ettore Spalletti, Jannis Kounellis, Aslı Çavuşoğlu, Fausto Melotti, Gilberto Zorio, Luciano Fabro, Marco Bagnoli e Ingela Ihrman.
Appartenenti a generazioni e culture differenti, gli artisti presentati dimostrano un’attenzione nei confronti degli elementi naturali, della vita organica delle piante, e delle capacità di trasformazione dei materiali. Le opere in mostra accolgono i visitatori coinvolgendoli in un percorso nel quale si intrecciano molteplici racconti, dalle memorie personali che trasformano gli oggetti a storie collettive, dalle essenze impalpabili ed atmosferiche dei colori al loro significato politico e, ancora, dalla magia della natura alla sua potenziale pericolosità.
La mostra si apre con le opere di Ettore Spalletti (Cappelle sul Tavo, Pescara, 1940) e le loro impalpabili suggestioni materiche (Sala 33). La poetica di Spalletti è fondata in gran parte sul colore, usato dall’artista allo stato di pigmento, con un procedimento lento che prevede la preparazione di un impastato con gesso e colla e la successiva stesura sulle superfici che costituiscono l’opera. Nell’installazione scultorea Anfora Bacile, Vasi (1982), Spalletti visualizza forme primarie utilizzando colori quali il bianco, il nero, il grigio, l’azzurro e il rosa. L’artista afferma di ritenere l’azzurro fondamentalmente un colore atmosferico. Un colore che non esiste come superficie, ma vive come condizione ambientale che abbiamo intorno. Ha inoltre spiegato che utilizza il rosa pensando all’incarnato, un colore in continua mutazione, che non trova mai la sua fissità perché si alimenta degli umori delle sue condizioni spirituali, della sua intelligenza. Allestita nel giardino adiacente alla Manica Lunga, Fonte (1986) è nuovamente presentata al pubblico dopo un accurato restauro. Delicata fontana dalla quale zampilla acqua fresca, l’opera è stata pensata dall’artista per gli uccellini che, dai boschi limitrofi, spesso arrivano a sorvolare il Castello, offrendo così uno spettacolo vivo e sonoro.
Nell’intera opera di Jannis Kounellis (Piraeus, Grecia, 1936 – Roma, 2017) è costante il riconoscimento del valore politico del proprio impegno artistico, talvolta espresso in termini di dissenso. I riferimenti alla cultura antica o alla storia dell’arte talvolta presenti nelle opere rimandano al dramma di una sintesi perduta che l’artista si accinge a ricomporre. Kounellis è tra i protagonisti dell’Arte povera. L’installazione Senza titolo, 2009 (Sala 32) è formata da una serie di cappotti e scarpe disposti in modo da comporre un insieme compatto, posato su un’ampia superficie di pavimento. Indossati e poi dismessi, gli indumenti conservano le tracce delle persone che li hanno indossati, testimoniandone la verità storica ma affermandone anche l’ineluttabile assenza.
Aslı Çavuşoğlu (Istanbul, 1982) analizza i modi in cui discipline quali l’archeologia, l’etnografia e l’antropologia raccontano accadimenti politici e sociali, costruendo storie arbitrarie. La raccolta di oggetti parziali o ritenuti inadatti e volutamente esclusi da approcci accademici, insieme all’osservazione dell’ambiente che caratterizza specifiche zone di conflitto, sono fra i metodi individuati da Çavuşoğlu per esprimere un diverso punto di vista. Attraverso il recupero del pigmento rosso estratto da un piccolo insetto conosciuto come cocciniglia armena, RED / RED (ROSSO / ROSSO), 2015-2017 (Sala 28), esamina le dinamiche politiche sviluppatesi lungo il confine naturale fra Armenia e Turchia. A Yerevan, l’artista si è procurata il rosso della cocciniglia con l’aiuto dell’unico fitoterapista che ancora lavora secondo una tradizione risalente ai tempi dell’impero ottomano, prima del genocidio armeno. durante l’impero ottomano, prima del genocidio. L’opera consiste in una serie di libri illustrati e tavole dipinte che lentamente virano dal porpora più intenso al rosso più brillante, giustapponendo la delicatezza del rosso proveniente dalla cocciniglia con l’intesa tonalità vermiglia della bandiera turca.
Seguendo il filo liberatorio del suo raccontare, dal 1959 Fausto Melotti (Rovereto, Trento, 1901 – Milano, 1986)adotta metalli quali ottone, acciaio e rame per realizzare opere tridimensionali dolcemente filiformi. Le sculture dell’artista talvolta sembrano strutturate come partiture visive, frasi musicali nelle quali sono in atto le regole del contrappunto. Esempio della liricità dell’artista è La pioggia (1966-72) (Sala 27), caratterizzata da un andamento che ricorda la caduta delle gocce d’acqua e il conseguente librarsi di molteplici schizzi. In tutta la sua produzione, che negli ultimi anni raggiunge la dimensione monumentale, Melotti si esprime su un doppio versante: da un lato realizza forme allusive, fantasiose e quasi fiabesche, dall’altro sviluppa concetti totalmente astratti.
Le opere di Gilberto Zorio (Andorno Micca, Vercelli, 1944) sono campi inesauribili di energia fisica e mentale, che racchiudono la meraviglia di un incontro inaspettato (Sala 22). Tra i protagonisti dell’Arte povera, ha indirizzato la propria ricerca nella direzione della processualità, predisponendo reazioni chimiche o fisiche che dotano i lavori di un particolare ciclo vitale. L’evaporazione di acqua marina e la conseguente traccia nella forma di cristalli di sale delinea in Tenda (1967) la dinamica di un paesaggio naturale. Il lago salato che si forma all’altezza degli occhi degli spettatori corrisponde alla dimensione antropocentrica che Zorio esalta nelle sue opere. Zorio ha rinnovato il linguaggio della scultura liberandola dalla fissità e dalla pesantezza a cui è tradizionalmente associata. In Colonna (1967),un conduttore tubolare è poggiato su una camera d’aria, quasi si trattasse di una colonna rovesciata. Il conduttore rimane quindi in una situazione di equilibrio precario; a sua volta, a causa del peso dello stesso elemento, la camera d’aria diventa durissima e la gomma perde di duttilità.
Tra i fondatori del movimento dell’Arte povera, Luciano Fabro (Torino, 1936 – Milano, 2007) è autore di una ricerca contraddistinta da totale libertà che gli ha permesso di esprimersi con i materiali e le forme più diverse. Intenzionato a rappresentare “l’ingombro dell’oggetto nella vanità dell’ideologia”, adotta forme familiari, largamente riconoscibili, di cui azzera la funzione simbolica collettiva. La riflessione dell’artista include un’incessante ricerca sulle specificità linguistiche della scultura esplorata attraverso materiali congrui, come marmo, ferro, o innovativi come vetro e seta e intenzionalmente liberata da vincoli relativi alla rappresentazione o al contenuto. Appoggiata su una base in ferro, Croce (1965-86) (Sala 23) è parte di un’indagine tesa a esplorare le possibilità dello spazio e dei corpi in esso contenuti. L’opera è costruita in modo che la lunghezza dei segmenti metallici sia proporzionale alle dimensioni dell’ambiente circostante. Investigazione dinamica, la croce è sempre allestita in modo da occupare il massimo spazio disponibile.
Autore di un’arte che dialoga con molteplici campi del sapere umano, Marco Bagnoli (Empoli, 1949) si ispira a quell’unità tra arte e scienza che ha caratterizzato il Rinascimento italiano. Alimentandosi con continui studi e viaggi, Bagnoli ha guardato alla cultura islamica, alla poesia mistica del persiano Rumi, al Sufismo, alle dottrine dell’Induismo e del Tao, realizzando opere che a loro volta si propongono come ipotesi di conoscenza del mondo tangibili e non. La ricerca dell’assoluto è uno dei temi alla base di Colui che sta e Benché sia notte (Sala 24), opere entrambe datate 1991-1992 e realizzate dall’artista in occasione della sua mostra personale al Castello. Nella prima, le diverse rotazioni di una serie di dischi lignei originano una scultura la cui ombra proietta un doppio profilo umano. Il titolo trae origine dalla figura dello Sthanu vedico, trasformazione di una divinità in un pilastro di fuoco circondato dalla continua emanazione e sparizione di molteplici figure, evocazioni degli esseri mortali che si rifiutò di creare. Simile a una creatura bifronte, capace di vedere in direzioni opposte e di trarre energia dinamica dalla propria stasi apparente, l’opera suggerisce la possibilità di superare i limiti dualistici della ragione. Come una nicchia per la statua, o la volta stellata per gli esseri umani, Benché sia notte traccia uno spazio di riferimento, un ambito rispetto al quale orientarsi. L’opera è composta da un reticolo in rame a larghe maglie, sulle quali sono posate piccole radici di bosso.
Pioniera di un’arte che indaga l’identità femminile, Joan Jonas (New York, 1936) in anni recenti si è volta al mondo naturale, ipotizzando una più stretta relazione con gli organismi marini spesso minacciati dal crescente inquinamento. All’inizio del suo percorso, negli anni sessanta a New York, guarda al lavoro di numerosi danzatori, alla ricerca di un nuovo linguaggio che la porta a sviluppare inedite performance. Ulteriori ispirazioni provengono dal teatro Nō, di cui apprezza semplicità e precisione. Wind (1968) (Sala 25)èuno dei suoi primi video. Filmato in uno spazio aperto di fronte all’oceano, in una fredda e ventosa giornata d’inverno, esso presenta una serie di coreografie nel corso delle quali i movimenti umani rispondono e dialogano con la forza degli elementi circostanti, in un’ipotesi di profondo ascolto e contatto con il vento, la neve e il mare.
Attraverso sculture ispirate a forme floreali e vegetali, Ingela Ihrman (Strängnäs, Svezia, 1985) punta l’attenzione sull’ordine temporale dello sviluppo organico. Il suo lavoro approfondisce i modi in cui, attraverso la denominazione e la catalogazione, il sapere umano cerca di ordinare e contenere la vitalità del mondo naturale (Sala 21). L’opera The Giant Hogweed (La Panace gigante), 2016, si presenta come una monumentale forma vegetale disposta orizzontalmente nello spazio. Apparentemente tranciata di netto dalle sue radici, essa si apre allo sguardo mostrando un interno rosso e cavo. La scultura ha le forme del panace di Mantegazza o panace gigante, una pianta ornamentale originariamente usata per giardini privati alla fine del XIX secolo. La sua bellezza contrasta però con la sua pericolosità, principalmente legata alla tossicità cutanea e oculare della sua linfa. Inoltre, l’estrema fertilità del panace può provocare il deperimento e la distruzione della vegetazione indigena, attualmente rendendolo una minaccia per la biodiversità.