Art Déco – Gli anni ruggenti in Italia
Un gusto, una fascinazione, un linguaggio che ha caratterizzato la produzione artistica italiana ed europea negli anni Venti, con esiti soprattutto americani dopo il 1929. Ciò che per tutti corrisponde alla definizione Art Déco fu uno stile di vita eclettico, mondano, internazionale.
Comunicato stampa
Un gusto, una fascinazione, un linguaggio che ha caratterizzato la produzione artistica italiana ed europea negli anni Venti, con esiti soprattutto americani dopo il 1929. Ciò che per tutti corrisponde alla definizione Art Déco fu uno stile di vita eclettico, mondano, internazionale. Il successo di questo momento del gusto va riconosciuto nella ricerca del lusso e di una piacevolezza del vivere, tanto più intensi quanto effimeri, messa in campo dalla borghesia europea dopo la dissoluzione, nella Grande guerra, degli ultimi miti ottocenteschi. Dieci anni sfrenati, “ruggenti” come si disse, della grande borghesia internazionale, mentre la storia disegnava, tra guerra, rivoluzioni e inflazione, l’orizzonte cupo dei totalitarismi.
La relazione con il Liberty, che lo precede cronologicamente, fu dapprima di continuità, poi di superamento, fino alla contrapposizione. La differenza tra l’idealismo dell’Art Nouveau e il razionalismo del Déco appare sostanziale. L'idea stessa di modernità, la produzione industriale dell’oggetto artistico, il concetto di bellezza nella quotidianità mutano radicalmente: con il superamento della linea flessuosa e asimmetrica legata ad una concezione simbolista nasce un nuovo linguaggio artistico. La spinta vitalistica delle avanguardie storiche, la rivoluzione industriale sostituiscono al mito della natura, lo spirito della macchina, le geometrie degli ingranaggi, le forme prismatiche dei grattaceli, le luci artificiali della città.
Nell’ambito di una riscoperta recente della cultura e dell’arte negli anni Venti e, segnatamente, di quel particolare gusto definito “Stile 1925”, dall’anno dell’Esposizione universale di Parigi dedicata alle Arts Décoratifs, da cui la fortunata formula Art Déco, che ne sancì morfologie e modelli, nasce l’idea di questa mostra. Il gusto Déco fu lo stile delle sale cinematografiche, delle stazioni ferroviarie, dei teatri, dei transatlantici, dei palazzi pubblici, delle grandi residenze borghesi: si trattò, soprattutto, di un formulario stilistico, dai tratti chiaramente riconoscibili, che ha influenzato a livelli diversi tutta la produzione di arti decorative, dagli arredi alle ceramiche, dai vetri ai ferri battuti, dall'oreficeria ai tessuti alla moda negli anni Venti e nei primissimi anni Trenta, così come la forma delle automobili, la cartellonistica pubblicitaria, la scultura e la pittura in funzione decorativa. Le ragioni di questo nuovo sistema espressivo e di gusto si riconoscono in diversi movimenti di avanguardia (le Secessioni mitteleuropee, il Cubismo e il Fauvismo, il Futurismo) cui partecipano diversi artisti quali Picasso, Matisse, Lhote, Schad.
La mostra ha una declinazione soprattutto italiana, dando ragione delle biennali internazionali di arti decorative di Monza oltre naturalmente dell’expo di Parigi 1925 e 1930 e di Barcellona 1929. Il fenomeno Déco attraversò con una forza dirompente il decennio 1919-1929 con arredi, ceramiche, vetri, metalli lavorati, tessuti, bronzi, stucchi, gioielli, argenti, abiti impersonando il vigore dell'alta produzione artigianale e proto industriale e contribuendo alla nascita del design e del “Made in Italy”.
La richiesta di un mercato sempre più assetato di novità, ma allo stesso tempo nostalgico della tradizione dell'artigianato artistico italiano, aveva fatto letteralmente esplodere negli anni Venti una produzione straordinaria di oggetti e di forme decorative: dagli impianti di illuminazione di Martinuzzi, di Venini e della Fontana Arte di Pietro Chiesa, alle ceramiche di Gio Ponti, Andlovitz, dalle sculture di Wildt, Martini e Andreotti, alle statuine Lenci o alle originalissime sculture di Tofanari, dalle bizantine oreficerie di Ravasco agli argenti dei Finzi, dagli arredi di Buzzi, Ponti, Lancia, Portaluppi alle sete preziose di Ravasi, Ratti e Fortuny, come agli arazzi in panno di Depero.
Non si è mai allestita in Italia una mostra completa dedicata a questo variegato mondo di invenzioni. Obiettivo dell’esposizione è mostrare il livello qualitativo, l'originalità e l'importanza che le arti decorative moderne hanno avuto nella cultura artistica italiana connotando profondamente i caratteri del Déco anche in relazione alle architetture e alle arti figurative: la grande pittura e la grande scultura. Sono qui essenziali i racconti delle opere di Galileo Chini, pittore e ceramista, affiancato da grandi maestri, come Zecchin e Andlovitz, che guardarono a Klimt e alla Secessione viennese; le invenzioni del secondo futurismo di Depero, Balla e Mazzotti; i dipinti, tra gli altri, di Severini, Casorati, Martini, Cagnaccio di San Pietro, Bocchi, Bonazza, Bucci, Marchig, Oppi, Metlicovitz.
Trattandosi di un gusto, di uno stile di vita non mancarono influenze e corrispondenze con il cinema, il teatro, la letteratura, le riviste, la moda, la musica. Dalla Scala a Hollywood, alle pagine indimenticabili de Il grande Gatsby (1925), di Francis Scott Fitzgerald, ad Agata Christie, Oscar Wilde, Gabriele D’Annunzio.
A 5 MINUTI A PIEDI
A due passi dai Musei San Domenico, Palazzo Romagnoli (via Albicini 12), ospita le Collezioni civiche del Novecento. In particolare il piano terra è dedicato all'esposizione permanente della prestigiosa Collezione Verzocchi (che raccoglie settanta quadri di artisti italiani di generazioni diverse e di diverse tendenze artistiche, da Guttuso a Donghi, da Vedova a De Chirico, uniti da uno stesso filo conduttore: il Lavoro), mentre al primo piano sono collocate tre diverse raccolte, ovvero gli oli e le incisioni di Giorgio Morandi della Donazione Righini, le sculture di Wildt legate alla figura di Raniero Paulucci de' Calboli, e 'La grande Romagna' che riunisce opere pittoriche e plastiche rappresentative del vasto e composito patrimonio novecentesco forlivese.
A 10/15 MINUTI A PIEDI
Posta sul lato orientale della piazza principale della città, intitolata ad Aurelio Saffi, l’Abbazia di San Mercuriale fu stata edificata sui resti di una pieve del VI secolo intitolata a Santo Stefano. Distrutta nel 1173 da un violento incendio venne riedificata tra il 1176 e il 1181 in stile romanico-lombardo. Il campanile di tipo lombardo (1180), si alza sulla destra per oltre 72 metri. Il portale gotico in pietra rosa ospita la lunetta con il rilievo dell'Adorazione dei Magi (XIII secolo), attribuito al Maestro dei Mesi di Ferrara. Di pregio anche il coronamento della parte centrale della facciata, ad archetti in mattoni sorretti da colonnine in pietra. Annesso alla chiesa è il quattrocentesco Chiostro dei Vallombrosani, varie volte restaurato a seguito dell’usura del tempo. Chiuso in origine, venne aperto su due lati nel 1941. L'interno della chiesa, a pianta basilicale, è costituito da tre navate. Da segnalare, all’inizio della navata destra, il Monumento funebre a Barbara Manfredi (1466 circa), opera di Francesco di Simone Ferrucci da Fiesole. Nella cappella di destra, la “Madonna col Bambino e i Santissimi Giovanni e Caterina” di Marco Palmezzano, mentre nella navata sinistra si segnala la cappella Ferri con l’arcata in sasso d’Istria (1536, opera di ornati e grottesche lombardesche), la celebre Immacolata Concezione di Marco Palmezzano sull’altare e, sulla volta e il tamburo, un ciclo di affreschi cinquecentesco.
Il Duomo di Forlì sorge - nella piazza omonima - sul luogo di un'antica pieve di origini anteriori al XII secolo. Completamente rifatto nel 1841 da Giulio Zambianchi, presenta una facciata in laterizio caratterizzata da un pronao neoclassico di proporzioni monumentali che poggia su sei colonne di ordine corinzio. All'interno, nella navata sinistra, si apre la grandiosa Cappella della Madonna del Fuoco (1619-1636), in cui si venera l'immagine quattrocentesca della Madonna del Fuoco, una delle più antiche xilografie conosciute - che un incendio nel 1428 lasciò miracolosamente intatta - mentre la cupola è affrescata da Carlo Cignani con “L'Assunzione della Vergine” (1680-1706); a sinistra dell'altare un “Sant'Antonio da Padova” di Guido Cagnacci. Nella Cappella di Sant'Anna, lungo la navata sinistra, si conservano il “San Sebastiano” di Nicolò Rondinelli e un “San Rocco” di Marco Palmezzano
Situata in Piazza Melozzo degli Ambrogi, percorrendo Corso Garibaldi verso Porta Schiavonia, la Chiesa della Santissima Trinità sorge sui resti di un'antica chiesa risalente al IV-V secolo, originariamente rivolta a occidente. La tradizione vuole che fosse la prima cattedrale di Forlì. L'interno della chiesa, in stile barocco, è a una sola navata, con quattro altari per lato. A destra dell'ingresso, un'acquasantiera in marmo rosa su colonna, in origine probabilmente un'ara pagana. Sulla sinistra, uno scranno episcopale di marmo greco venato, verosimilmente del V secolo appartenuto, per tradizione, a San Mercuriale. Da segnalare il Monumento Funebre a Domenico Manzoni, scolpito nel 1817 da Antonio Canova e collocato nel pilastro fra la terza e la quarta cappella di sinistra.
CON QUALCHE PASSO IN PIU'
Di fronte al monumento a Giambattista Morgagni del Salvini (1875), la Chiesa di Santa Maria dei Servi, detta anche di San Pellegrino, conserva, nonostante vari rimaneggiamenti, tracce che testimoniano l'antichità della sua nascita (1250 circa). Tra i più notevoli, il portale esterno, in pietra e laterizio, dai tipici caratteri del gotico padano, con una sequenza alternata di paraste e colonnine chiusa da un sistema di capitelli su cui è impostata la poderosa ogiva. L'interno secentesco, fortemente contrastante con l'austera facciata in cotto, ha impianto basilicale a tre navate scandite da pilastri. Nella controfacciata a destra il Monumento funebre a Luffo Numai (1502), opera dei lapicidi lombardi Tommaso Fiamberti e Giovanni Ricci. A destra si apre la settecentesca Cappella di San Pellegrino, lussureggiante di marmi policromi, edificata probabilmente su disegno di Giuseppe Merenda. Pregevole l’affresco di Giuliano da Rimini, con il “Crocifisso tra Maria e San Giovanni Evangelista”, mentre il frammentario ciclo di affreschi cinquecenteschi è assegnabile all'ambito di Livio Agresti. La Sala del Capitolo è l'unica testimonianza interna tardo-medioevale (documentata dagli inizi del XIV secolo assume l'attuale impianto rettangolare con la volta a ombrello e peducci in cotto nel secolo successivo).
Appoggiata alla porta Sud della città, la Rocca di Ravaldino rappresentò uno dei luoghi deputati alla difesa di Forlì per tutto il Medioevo. Ristrutturata e dotata di cittadella nel 1472 per volere di Pino III Ordelaffi e completata nel 1482, è stata recentemente restaurata anche attraverso la ricostruzione delle coperture di due torrioni e del maschio. Quest'ultimo, che si erge al centro della cortina est, è costituito da tre sale sovrapposte; in quella superiore si trova la bocca di un pozzo a rasoio, che scende fino al livello del cortile interno. Nel maschio si trova anche una singolare scala a chiocciola in pietra, senza perno centrale, i cui 67 scalini si sostengono per sovrapposizione. Nel lato sud della rocca è ancora visibile un grande stemma dei Borgia posto sul luogo in cui Cesare Borgia, nel gennaio del 1500, fece praticare la breccia che gli consentì di conquistare la rocca, sottraendola alla Signora di Forlì, Caterina Sforza. Di fianco all’ingresso del mastio sono visibili i ruderi della rocca trecentesca. Oggi è adibita a sede di mostre temporanee, mentre il cortile ospita concerti.