Arte accidentata
Mostra collettiva
Comunicato stampa
Può il caso aggiungere senso o addirittura poesia ad un’opera d’arte in sé compiuta concettualmente e formalmente? Quando il Grande vetro s’incrinò per mano del fato, Marcel Duchamp decretò che les craquelures, le fenditure intervenute, anziché violentarla, arricchivano l’opera di vissuto. Ed io che ho impressa a fuoco sulla mia pelle l’avventura di un’altra opera di Duchamp presa di mira dal caso, e cioè Porte, 11 Rue Larrey, riverniciata per errore alla Biennale di Venezia nel 1978, conosco già il dilemma. Come comportarmi davanti a un’opera che era costata una fortuna per le mie tasche ed ora appariva mutilata nel titolo e nella firma apposte sullo stipite della porta? Confesso che all’epoca non ebbi dubbi. D’altronde non ero l’autore, soltanto Duchamp vivente avrebbe potuto pronunciare la parola definitiva. Senza incertezze optai per il restauro. Ebbene, dopo anni, estraendo dalla cassa la porta restaurata per esporla, non dovetti constatare che il restauro era evaporato? Il caso, in tutta evidenza, aveva voluto averla vinta. È stato allora che ho alzato bandiera bianca.
Con il caso ho una partita aperta, ne colgo gli ammiccamenti, i segnali d’inquietudine che ultimamente sono stati più d’uno.
State a sentire.
Alcuni mesi fa le mie assistenti ed io, entrando in galleria, ci siamo trovati davanti a una scena apocalittica, degna di un set cinematografico o di una scenografia teatrale. Cos’era successo?
In una delle sale, la migliore di tutte, gran parte della tela dipinta del controsoffitto si era lacerata e brandelli di pittura penzolavano dall’alto, straziati e minacciosi. Il caso che periodicamente torna a battere un colpo nelle mie vicende artistiche?
Lì per lì l’ho pensato, ma non ne ho afferrato al volo la portata, lo scopo recondito. E cioè che fosse lo stesso spazio espositivo di via del Paradiso (forse geloso del garage di via Beccaria, appena ospitato con le gigantografie ne L’Attico dentro L’Attico), a proporsi lui stavolta come soggetto principe di una mostra su misura. Alla fine ho rotto gli indugi e incaricato Claudio Di Giambattista, restauratore di cui mi fido, di mettere in sicurezza il controsoffitto.
A distanza di qualche settimana si sono verificati in sequenza due fatti che mi hanno dato da pensare.
Scivolando banalmente a terra in galleria va in frantumi il vetro di un nudo incorniciato di Luigi Ontani, Il Testimone del 1975, insolitamente sensuale. Lo esamino da vicino: il quadro è salvo. Forse è anche impreziosito con quei graffi dovuti alle schegge sul corpo illibato...
Non molto tempo dopo, nel magazzino di campagna, scopro che un dipinto di Giancarlo Limoni, Torsione del 1989 è stato aggredito da un topo ed ora presenta un buco grosso come una casa, dove spicca in bella vista l’impronta potente dei denti del roditore…
Come potevo ignorare il collegamento tra il collasso del controsoffitto e queste ultime vicende? L’idea della mostra si è affacciata nitida nella mia mente snebbiata. Non ho perso un minuto di più, sono corso da Di Giambattista in piedi su una scala, alle prese con l’ultimo squarcio del controsoffitto non ancora richiuso, e gli ho intimato: “Fermati!”.
E’ iniziata da quel momento la caccia ad altre opere accidentate. Claudio Palmieri ne ha rinvenuta una nel suo studio, Albero verde del 2017, squarciata come se qualcuno con un machete si fosse aperto il passo nel fitto di una boscaglia…
Sul quadro fotografico di Luca Patella, Piazza di Spugna del 1967, erano colate, come sull’asfalto, delle macchie nere, misteriose, che gli conferivano una inaspettata drammaticità…
Nello spazio tutto bianco del dipinto Senza titolo del 1990 di Paolo Fabiani, dove fluttua una vegetazione evanescente, all’ultimo respiro, era emersa una crepa dolorosa…
Un corpo contundente imprecisato doveva aver colpito il quadro di Stefano Di Stasio, Assolo, del 2010. Un nudo, come quello di Ontani, ferito, ma non a morte…
Dal canto suo Miki Carone ha scovato nel suo studio un’opera, Made in China del 2010, un piccolo Buddha con in mano un telefono cellulare, che presenta un foro netto, circolare, in curiosa sintonia col formato ovale del quadro…
Soltanto durante l’allestimento mi rendo conto che Il Testimone di Ontani, in posa michelangiolesca, lo sguardo rivolto all’insù, si combina perfettamente con lo squarcio rimasto aperto del controsoffitto.
Sono sbalordito. È come se si fossero chiamati, dati appuntamento.
Alzo anch’io gli occhi al cielo.
Che lassù qualcuno ci ami?
Fabio Sargentini