Assonanze in una famiglia d’artisti
Mostra doppia personale.
Comunicato stampa
«ENZO NENCI & TERESA NOTO: assonanze in una famiglia d'artisti»: questo il titolo della rassegna che si inaugura sabato 30 agosto, alle ore 18,00, presso la galleria “IL SAGGIO” in via della Mainolda 19 a Mantova. Gianfranco Ferlisi, il curatore della mostra, nel rivisitare, innanzitutto, l’opera di Enzo Nenci, uno dei massimi scultori italiani del secolo scorso (Mirandola di Modena, 1903-Virgilio di Mantova, 1972), scultore che ha vissuto e operato per più di vent’anni a Ferrara, prima di trasferirsi a Mantova, presenta una serie di importanti inediti di tale autore, a cominciare da Caino (1947), per poi continuare con la Deposizione (1950), L'Albero (Crocifissione all'albero) (1950), la Grande maternità (1952), la stalagmite-stalattite: la famiglia (1967), la Bagnante" (1962) e la Testa di Cristo (1962).
Altre opere in esposizione abbracciano, in ogni caso, l’intero percorso dell’artista per toccare, in una rapida panoramica, un periodo che porta dagli anni giovanili - vissuti nella città estense - sino a quelli più tardi che lo hanno reso celebre. Le eleganze ellenistiche iniziali si confrontano così con la carica d’esasperata espressività del dopoguerra. Parallelamente la bellezza della materia dei primi anni Cinquanta, esaltata nella restituzione delle superfici, nel misuratissimo mestiere, delinea la ricerca della struttura e dell’espressione, la sintesi fra la solidità della materia e la duttilità dell'idea creativa. Dagli ieratici sacerdoti orientali, torniti nelle loro sintetiche volumetrie, si arriva, infine, alle «Stalagmiti-stalattiti», composizioni per lo più affusolate e astratte, agglomerati di materia che rimandano alla spontaneità delle reali concrezioni calcaree. I punti di arrivo della sua scultura esaltano - a conclusione di un percorso estetico sorprendente - gli esiti di una modellazione che porta alla luce risultati plastici sempre più innovativi, quasi presenze vitali in cui si rapprende un autentico astrattismo sensitivo animato da un quid d'emozionale sensibilità e dell’immediatezza della sua traduzione che sembra affiorare sotto la superficie della materia.
È da queste tensioni estetiche che origina poi una piattaforma generativa di ricerca, di educazione, di passioni e di coinvolgimento sentimentale, capaci di contagiare Teresa Noto (la pittrice sposa infatti Giorgio, uno dei figli di Enzo). I segni magici dell’alfabeto dell’arte, come un muto testimone, passano di mano e accendono un prolifico percorso emulativo, un esempio lampante di perfette assonanze in una «famiglia d’artisti». A fronte di un percorso storico, a fronte dei fondamentali di un’altra epoca, Teresa ci porta invece - oggi - sul versante della contemporaneità, in una produzione recente e tutta giocata sul crinale dell’aniconicità.
Dai grovigli materici, a cominciare dalle trame rosse di Field of the heart del 2011, emerge in mostra il lato enigmatico ed oscuro di un’artista che invita ad esplorare opere in cui si agitano spirali informali, segnali dell’anima atti a svelare il background che si cela dietro ogni sua immagine. L'arte della Noto - come scriveva Vittorio Sgarbi - è infatti «un modo di intendere la materia come fonte primaria di qualunque espressione artistica. Tutto parte dalla materia, dalle potenzialità che essa contiene». Ma la materia si traduce, più spesso, nell’arcano segno rotatorio carico di una speciale energia dinamica che si fa strumento di comunicazione tra cielo e terra. L’artista manipola i colori del mondo facendo ricorso all’immaginazione mentre la pittura materializza un rapporto vitale con l’entità fisica dell’opera, con la sua qualità di strumento rituale in grado di parlare della natura e del suo infinito portato simbolico. Così tra tanti soggetti aniconici possibili, ciò che emerge dal continuum rotatorio delle sue linee curve sono i sussulti segreti che rivelano il palpitare di una sensibilità felice di fronte a una energia primordiale e sotterranea che, come di onda di luce, si rapprende nella bellezza raggiante del colore.
Perché la grandezza della sapienza della pittura sta nella sua capacità di saper trasporre, la dialettica del proprio pensiero in trame magiche in grado di offrire, rinnovate, particelle di gioia cromatica, spaziale e segnica e poi tutte le possibili implicazioni spirituali del fare, del punto di vista speciale di autentica ricerca espressiva sul significante artistico, un significante declinato sulle corde dell’anima.
La sostanza di ciò che osserviamo si pone nella dimensione sintetica di un evento primario nello spazio, nella trama dei segni e nei simbolismi visivi che s’organizzano in qualcosa che possiamo chiamare comunque forma. È così che il significante offre un significato aperto verso l’infinito.
Alla fine restano i blu del cielo e l’azzurro liquido, gli ori bizantini mescolati ai bagliori antichi del rame, i cementi pompeiani smorzati da polveri di nerofumo e da bianchi di piombo. E restano le graduate gestualità che danno forma a matasse struttive in cui si raccoglie un firmamento cosmico trouvè che narra dell’urgenza espressiva, del flusso vitale, del vigore di un impulso originario che vuole cogliere l’emozione nella sua snudata e complessa traducibilità esteriore, quella che appartiene ad un campo energetico arcano che tutto collega. Tra le ombre della Fisica quantistica e degli insegnamenti vedici, tra buddismo e sciamanesimo emerge, dunque, la continuità dell’arte intesa come ricerca di una dimensione speciale e ineludibile, come coscienza familiare travagliata ma vitale, come spettacolo di meraviglia fragrante e di ispirato stupore per i sensi inafferrabilmente generativi dell’alfabeto dell’arte, per l’ambiguità della loro alterità.