Boris Lehman
Un incontro fortuito con Boris Lehman (Losanna 1944), prolifico e audace film-maker indipendente, in viaggio in Italia per realizzare un diary film – partendo dal confine Svizzero, ripercorrendo i luoghi a lui cari ed incontrando gli amici italiani, per arrivare a Napoli.
Comunicato stampa
Un incontro fortuito con Boris Lehman (Losanna 1944), prolifico e audace film-maker indipendente, in viaggio in Italia per realizzare un diary film - partendo dal confine Svizzero, ripercorrendo i luoghi a lui cari ed incontrando gli amici italiani, per arrivare a Napoli.
Boris Lehman, difensore di una libertà senza compromessi, ha realizzato artigianalmente in pellicola Super 8mm e 16mm più di 400 films e documentari che raccontano in prima persona il mondo che si attraversa e gli imprevisti attuati dalla casualità. Come egli scrive: “…Filmo per rispondere alle domande. Filmo per osare, per produrre, per provocare… Fare del cinema, come il Ladro di Bresson, per arrivare fino all’esser amato. Filmare per amare ed esser amato perché la cinepresa si frappone tra me e l’altro e protegge bene sia l’uno che l’altro, essa disinibisce, permette l’ardire e l’insulto, le tenerezze e le dichiarazioni d’amore, perché rivela l’invisibile, il nascosto e sepolto, essa permette tutto, di sognare ad alta voce, di rendere possibile l’impossibile… Perché filmo? 1. Esorcizzare; 2. Memorizzare; 3. Vedermi osservando gli altri; 4. Avere una relazione (un legame) col mondo; 5. Essere me stesso, esistere, divenire qualcuno, non si è mai sicuri dell’essere… Non ho mai avuto alcun messaggio da consegnare. Nessun discorso da dire. Il cinema per me non è mai stata una questione di soggetto né di forma. (Le domande che si pongono la maggior parte dei cineasti: cosa posso filmare? Quale scenario, quale storia, quale libro, ecc.? E poi come?) Per me è semplice, è una questione di vita e di morte. Un modo per vedere, un modo di vivere. Filmare, vivere, filmare”.
I due films PORTRAIT DU PEINTRE DANS SON ATELIER e UN PEINTRE SOUS SURVEILLANCE, filmati a distanza di vent’anni uno dall’altro, sono un dittico incentrato sull’incontro - cinematografico - di due sguardi, quello di Boris Lehman e del suo amico artista Arié Mandelbaum. L’atelier diviene il magico specchio dell’arte, la cinepresa penetra il suo universo esplorandolo nei minimi recessi fino all’intimità; ma senza spiegazioni né biografia, dell’artista rivela solo il nome, qualche gesto, qualche parola, quasi niente.
CHOSES QUI ME RATTACHENT AUX ÊTRES si presenta come un inventario alla Prévert, le immagini e le parole si incatenano come in una poesia. Dopo il celebre Ceci n’est pas une pipe di René Magritte, si sa bene che le evidenze sono ingannatrici, che le parole come le immagini possono essere traslate dalla loro funzione primaria. Si tratta di creare l’oggetto attraverso l’immagine e la parola, filmandolo. Come Boris Lehman scrive: “…Atto di creazione, come all’inizio fece Dio col Cielo e la Terra, con Adamo ed Eva. Mostro con la cinepresa qualche oggetto del mio quotidiano (che è allo stesso tempo un’allegoria) che è appartenuto ad altre persone che ho amato, o frequentato e ne concludo: Io sono la somma di tutto quanto gli altri mi hanno dato”.