Campus
La ricerca di giovani artisti emergenti, humus ed espressione della contemporaneità, è tra i compiti di un Istituto d’arte. Campus è una mostra nata da una ricerca fatta in collaborazione con Massimo Vitangeli, artista e professore all’Accademia di Urbino e di Macerata, attorno all’estetica della comunicazione e dei nuovi linguaggi.
Comunicato stampa
La ricerca di giovani artisti emergenti, humus ed espressione della contemporaneità, è
tra i compiti di un Istituto d’arte. CAMPUS è una mostra nata da una ricerca fatta in
collaborazione con Massimo Vitangeli, artista e professore all’Accademia di Urbino e di
Macerata, attorno all’estetica della comunicazione e dei nuovi linguaggi. La
concomitanza con la 54. Biennale di Venezia, ove sono presenti autori italiani che da
tempo lavorano con il CACT (Vitangeli, La Rocca, Seghene), danno ancor più spessore a
questa esposizione. Il forte legame che un luogo d’arte dovrebbe mantenere con le
Accademie d’arte costituisce l’‘investimento’ di idee per il futuro.
La concentrazione sulle dinamiche non certo avulse alla crisi del modello borghese
garantista, ormai visibilmente in crisi, si riflette in maniera diretta, quanto disparata, sulla
produzione artistica attuale. Come più volte ribadito, il vuoto viepiù grande per quanto
attiene ai riferimenti alle avanguardie – e il loro totale revisionismo – pone l’espressione
artistica al centro di uno studio, in grado di depistare fortemente la critica d’arte e il
concetto di evoluzionismo storico entro un percorso progressivo. Se molti critici, come lo
stesso Jerry Saltz, parla (riferendosi alla penultima generazione) di un discendenza
senza identità, in realtà – a ben guardare – la ricerca artistica non si fa più attraverso lo
studio di nuovi stilemi, quanto piuttosto attorno all’uomo deposseduto di un contesto
sociale e umano a lui vicino e nel quale egli dovrebbe riflettersi. Le avanguardie, così
come i modelli borghesi tutti hanno verosimilmente perso il loro impatto utile o utilitarista.
Contro la visione illuminista meramente formale, garantista e mercantile, di cui il regime
democratico contemporaneo incarna l’apice di una nemesi storica, l’ultima generazione –
figlia di un apparato comunicazionista planetario – si contrappone, all’interno della
società, al ruolo dell’‘individuo’ per riappropriarsi dello statuto di ‘persona’ dagli accenti
egocentrici, quanto dionisiaci e sciamanici, incrociati: al di fuori, quindi, dei criteri di una
lettura più razionale, cui ci siamo fin troppo abituati. Il concetto globale di massificazione
dell’arte attraverso stili, mode e modelli da seguire/imitare per la costruzione di un sé
cosciente viene fortemente messo in discussione, così come sulla bilancia è l’assetto
sociale contemporaneo e il pensiero debole tutto. Attorno a ciò che in maniera aleatoria
viene già definita una ‘retroguardia’ vi è ancora molto da discutere, non solo in termini
artistici e culturali, quanto anche attraverso il loro approccio antropologico, sociologico o
filosofico.
Una delle particolarità degli autori presi in considerazione rimane il forte legame con la
Storia della rappresentazione, non già manifestata attraverso linguaggi multimediali,
bensì superandoli e vanificando così il dogma delle avanguardie. I loro stilemi non
appartengono più alla conquista tecnica o tecnologica, bensì li ricollegano al mezzo
espressivo che più si avvicina alla loro esperienza individuale e tattile, meno visiva e non
già collettiva.
Se KANE CADDOO (1987), italiano di origine irlandese, si riappropria della Street Art e
del Graffiti per fonderlo con una visione personale espressionista, laddove la musica
Jazz ne costituisce un elemento fondamentale. CHIARA SEGHENE (1983), multimediale,
affronta con molti mezzi – e come donna – la sua appartenenza culturale e religiosa.
STEFANO TEODORI (1986) usa il mezzo filmico bilanciandosi tra il video d’artista, il clip
e lo spot pubblicitario. FEDERICA BOCCHI (1985) ripensa la sua identità femminile
ripercorrendo il filo del ricordo e della nostalgia saldamente legata alla storia delle
generazioni. JACOPO PANNOCCHIA (1987) segue fondamentalmente i segni lasciati
dalla tradizione pittorica italiana, anch’egli con particolare attenzione critica nei confronti
della sua cultura psico-geografica e religiosa. Interessante rilevare come la sua attività
visuale si affianca a quella di batterista in una formazione musicale.
Mario Casanova, 2011