Carlo Ramous – Materia e materia
Presso gli spazi laboratoriali di Officine Saffi, una piccola mostra dedicata alle opere di Carlo Ramous (1926 – 2003).
Comunicato stampa
Dal 15 dicembre al 17 gennaio Officine Saffi è lieta di presentare presso i propri spazi laboratoriali una piccola mostra dedicata alle opere di Carlo Ramous. In esposizione alcune sculture degli anni '50, tra classicismo e sperimentazioni cubo-primitiviste, che dialogano con tecniche miste degli anni '70, testimonianza della grande sensibilità spaziale dell'artista. Completano la mostra diverse spille in ceramica del 1953, un'eccezionale produzione di sculture da indossare.
Dal temperamento riservato, sensibilissimo, Carlo Ramous ai suoi esordi non si presentò con immediatezza come profondo innovatore del fare arte, bensì come attento tessitore di fili che potessero intrecciare tradizione e futuro. Le sue prime prove nel secondo dopoguerra si erano infatti concretizzate nel solco del figurativismo di radice classica (Marino Marini era stato suo carismatico maestro a Brera), avvicinandosi in pochi anni a quel picassismo il cui influsso in Italia sarebbe stato suggellato dalle memorabili mostre dedicate al maestro spagnolo nel ‘53 a Roma e, poco dopo, a Milano, a Palazzo Reale.
Una delle sue prime palestre di esercitazione fu la terracotta. Ne testimoniano la vitale espressività alcune sculture che Ramous, fra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, modellò a soggetto antropomorfo: nel 1955, “Testa” e “Grande donna seduta”, poi nel 1956 “Solitudine” e nel 1957 “Due figure”, opere tutte realizzate in cotto refrattario e ammantate dei toni caldi e scabri che al linguaggio di tale materia appartengono. Fra figurazione e astrazione, già si avvertiva come l’artista stesse meditando altri percorsi che lo avrebbero allontanato dalla solida tridimensionalità che, desunta in parte dall’arcaismo mediterraneo in parte dal mondo dell’antichità classica, si era perpetuata nell’arte italiana fino al XX secolo. Si pensi ad Arturo Martini o al primo Manzù, quest’ultimo, tra l’altro, anch’egli maestro del giovane scultore milanese.
Ai primi anni Cinquanta, in particolare al 1953, risale la nascita delle prime spille in ceramica smaltata che riconducono al mondo muliebre sia per finalità ornamentale sia per scelte tematiche, nei soggetti e nei decori. Tali piccoli “gioielli”, creati per la moglie Lalli, ma anche per amiche e persone a lui vicine, come, per esempio, collezionisti ed estimatori della sua opera, avrebbero rivelato nel corso dell’iter artistico il coté intimista di Ramous, delicato, e garbatamente ludico. Volti, maschere, arcieri, gatti, colombe si susseguono a ritmo veloce su queste placche di qualche centimetro di diametro, caratterizzate da un segno creativo che zampilla vivace per tradursi in piccoli monili. Le comparazioni stilistiche con la produzione di ornamenti di altri artisti che, tra la fine degli anni Quaranta e i Sessanta, si sarebbe delineata in ambito europeo, è immediata. Max Ernst, Pablo Picasso o George Braque avevano iniziato a interessarsi anch’essi al bijou, introducendo - in gioielli d’oro sbalzato e inciso, o smaltato e tempestato di pietre - maschere, tra il tribale e il surreale, figure di donna come icona classica, soli raggianti come amuleto, uccelli, gabbiani o colombe come segno di libertà. Nelle opere di Ramous appaiono simili le fattezze compatte dei ritrattini femminili, di ripresa frontale o laterale, e analogo è il senso della sintesi formale, con qualche concessione all’Africa e ai suoi simulacri.
La fantasmagoria vivace e cangiante delle piccole spille certamente non distrasse mai Ramous dalle sue ricerche, sviluppate ormai in stile astratto (si veda la vasta produzione di sculture in bronzo o le aeree strutture in ferro cui è stato adeguato rilievo nella mostra tenutasi nell’estate 2017 alla Triennale di Milano, a cura di Fulvio Irace e Luca Pietro Nicoletti). Piuttosto il gioiello rappresentò un divertissement che, come un fil rouge, legò fra loro momenti “privati” del suo iter esistenziale. Già a fine anni Cinquanta, per proseguire poi nei Sessanta e nei Settanta, erano giunte infatti commissioni di grande impegno, che Ramous portò a compimento in collaborazione con architetti come Mario Tedeschi, Carlo Bassi e Goffredo Boschetti, ovvero opere in cui scultura (in cemento o terracotta) e architettura si integravano in un’armoniosa complementarietà di impronta figurativa, astratto-informale, o brutalista, come nel caso dello stabilimento tipografico Cino del Duca, edificato a Blois nel 1961 su progetto dell’ingegnere Tullio Patscheider. Ma non da sole realizzazioni plastiche fu scandito nei decenni, fino ai Novanta, l’impegno quotidiano di Ramous negli spazi di via Ariberto, dove a lungo visse e lavorò. La pittura lo aveva sempre interessato, e soprattutto le sue attuazioni in chiave sperimentale. In essa fondeva materiali che, insieme, raramente trovano applicazione su superfici bidimensionali: tela, carta, legno, cellophane, pigmenti minerali, ferro, materie combuste. Valgano a esempio “Sogno” del 1971, i cui grafismi si disegnano su juta grazie a combustioni, o l’opera di sapore architettonico “Senza titolo” (1981), in cui china, carta, cellophane si traducono in saggio compositivo di poetico impianto strutturale. In una sintesi che riassume la molteplicità degli esiti espressivi del maestro, la cui aspirazione era abbattere i confini fra arte e arte, materia e materia, linguaggio e linguaggio. Con l’inquieto interrogarsi che tale impresa comporta, e che era connaturato all’intimo essere dell’artista.*
* Estratto dal testo critico di Alessandra Quattordio