Cesare Pietroiusti – Materia paterna

Sulla scia della precedente mostra “Valori”, parzialmente incentrata sulla complessità del rapporto padre/figlio filtrato attraverso la paterna collezione di francobolli, Pietroiusti indaga ancora più in profondità la sua relazione con i genitori.
Comunicato stampa
The Gallery Apart è orgogliosa di annunciare “Materia paterna” la seconda mostra personale di Cesare Pietroiusti negli spazi della galleria.
Sulla scia della precedente mostra “Valori”, parzialmente incentrata sulla complessità del rapporto padre/figlio filtrato attraverso la paterna collezione di francobolli, Pietroiusti indaga ancora più in profondità la sua relazione con i genitori, in modo palese rispetto alla figura paterna, ma con un significativo riferimento alla madre, ironicamente evocata attraverso il termine “materia”. Nulla può fungere da introduzione alla mostra meglio del testo scritto per l’occasione dall’artista.
La decisione di dedicare una mostra alla figura paterna – non al padre in generale, ma proprio al proprio padre – al netto di probabili determinanti inconsce, richiede un’occasione.
In questo caso, è stata il fatto di avere dovuto svuotare, dopo averlo venduto, l’appartamento in via Novara, nel “signorile” quartiere Trieste di Roma, a pochi passi dal Museo Macro, dove avevano vissuto i nonni materni e, dalla mia nascita in poi, i miei genitori. In quella casa mio nonno è morto nel 1963, mia nonna nel 1986, mio padre nel 2011, e mia madre quattro anni fa. Tutti gli ambienti erano pieni di oggetti le cui storie, funzioni, apparenze, attraversano tre generazioni – dai primi agli ultimi anni del ventesimo secolo. Ho buttato via molto, ma molto ho tenuto, nella speranza di trovare documenti interessanti o sorprendenti, magari in grado di fare luce su aspetti a me sconosciuti di qualche componente della famiglia. Così, in cantina, in un paio di voluminosi scatoloni coperti di fuliggine nera, ho trovato centinaia di fascicoli con le pubblicazioni scientifiche (1960-1966) di mio padre, Guido Pietroiusti.
Guido era medico, ginecologo (ma lui preferiva definirsi “ostetrico”) di successo, a lungo primario, negli anni più felici della sua vita professionale, dell’Ospedale di Velletri. Non era un grande oratore, né un raffinato intellettuale, ma certamente era un ottimo medico, molto stimato e amato dalle sue pazienti. Ricordo, in particolare, la sua capacità di rassicurare le partorienti nei momenti decisivi del travaglio. Era convinto che avrei fatto anche io l’ostetrico e quando – credo fossi al secondo anno di università e, per inciso, assai in ritardo nella maturazione sessuale – mi portò nel suo reparto e provò a insegnarmi come si fa una visita ginecologica, fui sopraffatto dall’imbarazzo, dal senso di inadeguatezza e di incolmabile distanza tra me (le mie dita) e la possibilità di dare un senso di qualunque genere a ciò che stavo facendo. In effetti quella distanza non si è mai colmata e forse il fatto che io abbia fatto l’artista e non il medico, è anche dovuto a quel trauma.
Alcune delle pubblicazioni paterne raccontano di una nuova tecnica, appresa in Francia, la celioscopia: un modo, in seguito diventato molto comune, di esplorare l’apparato genitale femminile per “via endoscopica” praticando un foro nell’addome e facendovi passare un piccolo obiettivo collegato a una foto- o video-camera. Nella pubblicazione “L’importanza della celioscopia nella diagnostica ginecologica” la tecnica è illustrata sia con immagini a colori degli organi interni, sia con alcune foto in bianco e nero del setting operatorio, in una delle quali si vede mio padre con l’occhio incollato a una macchina fotografica precariamente connessa a un tubo che penetra nell’addome di una persona in anestesia totale, il cui corpo è, per il resto, coperto. Questa immagine, e la serie di “celiofoto” riprodotte in questo e in altri fascicoli, mi hanno fatto venire in mente che, tra il 1989 e metà anni ’90 avevo esposto, in varie occasioni in gallerie e musei, le riproduzioni fotografiche di quello che c’era dall’altra parte delle pareti degli spazi espositivi.
Il progetto di questa mostra “Materia paterna” emerge quindi dall’idea di un confronto, e forse da un tentativo di dare forma a una affinità che, data l’evidente distanza rispetto a scelte professionali e valoriali, risulta – almeno per me – inattesa e sorprendente.
“Materia paterna” diventa così un progetto che sta fra l’omaggio e la sottolineatura critica di una differenza sostanziale, fra la nostalgia e l’ironia di ripercorrere una vicenda punteggiata da brandelli di memoria, attraverso il ri-utilizzo, la manipolazione, la ri-configurazione di oggetti altrimenti destinati alla discarica. Come se l’arte potesse, con una libertà che neanche la ricerca scientifica possiede, dare senso a una materia altrimenti incomprensibile o non maneggiabile, inservibile o intoccabile.
La mostra presenta un vasto corpo di opere, alcune storiche ma in gran parte di nuova produzione. Quasi a certificare il trait d’union con la precedente mostra in galleria, l’artista ha realizzato un’opera di grandi dimensioni consistente in due collages posizionati l’uno contro l’altro, come due facce di un’enorme busta, e contenenti rispettivamente decine di involucri postali provenienti da case d’asta o mercanti di francobolli e decine di lettere e fatture attestanti le acquisizioni del padre per la sua collezione.
Gran parte della mostra focalizza l’attività medica paterna. Avendo trovato un consistente numero di pubblicazioni del padre e di libri della sua biblioteca, Pietroiusti ha utilizzato le pubblicazioni scientifiche per realizzare un grande collage in cui ripetizione e bicromia danno vita ad un’opera a metà tra concettuale e astratto-geometrico, mentre i libri hanno preso nuova vita in una serie di sculture volumetricamente regolari.
Una serie fotografica si basa invece sulla riproduzione delle immagini trovate dall’artista e realizzate dal padre con la tecnica della celioscopia. Gli organi interni si rivelano scenario di una enigmatica bellezza, dando vita ad immagini che evocano lo spazio siderale. Direttamente connesso, il lavoro scultoreo ottenuto mettendo in fila, secondo una progressione dimensionale dal piccolo al grande, una serie di dilatatori uterini in acciaio, posizionati a comporre una sorta di scala ascendente. E sempre attraverso il ricorso ad oggetti trovati nello studio paterno, ecco un lavoro consistente in una proiezione in sequenza di 80 diapositive tutte titolate GINECOLOGIA presumibilmente usate per scopi didattici.
Questo corpus di lavori che riutilizzano oggetti residuali della lunga attività professionale del padre offre a Pietroiusti l’occasione per un’analisi di sé e del suo rapporto (mancato) con la medicina, ma spinge altresì a riflettere sul corpo femminile, sulla sua centralità rispetto all’universo conosciuto e al miracolo della vita (pensiamo a L’origine du monde di Courbet) ma anche sulla dialettica fra la tradizionale e patriarcale visione della femminilità come mistero e la interiorizzata consapevolezza del principio di autodeterminazione del proprio corpo da parte delle donne.
Forse, al fondo, la dialettica è, una volta di più, quella fra interiorità (del corpo ma anche del sé, di un luogo ma anche di un’istituzione) ed esteriorità. Proprio in relazione a quest’ultimo aspetto, Pietroiusti ripropone in mostra alcune opere fotografiche storiche appartenenti alla serie “Finestre Vivita” del 1989/90. Così come il corpo umano può essere indagato e visto nelle sue strutture interne attraverso alcune delle tecniche mediche evocate in mostra, anche gli edifici e gli spazi possono essere traguardati dallo sguardo dell’artista e svelare realtà altrimenti invisibili.
Un particolare ringraziamento ad Alex Paniz.
CESARE PIETROIUSTI:
Nato nel 1955, vive e lavora a Roma. Si è laureato in Medicina con tesi in Clinica Psichiatrica nel 1979. Nello stesso anno è stato co-fondatore del Centro Studi Jartrakor e, nel 1980, della Rivista di Psicologia dell’Arte, Roma. La ricerca artistica di Cesare Pietroiusti esprime interesse per le situazioni paradossali o problematiche nascoste nelle pieghe dell’ordinarietà dell’esistenza: pensieri che vengono in mente senza un motivo apparente, piccole preoccupazioni, quasi-ossessioni considerate troppo insignificanti per diventare motivo di analisi, o di auto-rappresentazione. Nel 1997 ha raccolto in una pubblicazione i Pensieri non funzionali, un centinaio di idee parassite, incongrue o comunque prive di scopo apparente, formulate come istruzioni per realizzare progetti artistici. Negli ultimi anni il suo lavoro si è concentrato soprattutto sul tema dello scambio e sugli ordinamenti economici. Pietroiusti è stato uno dei coordinatori delle residenze e dei progetti Oreste (1997-2001) e del convegno Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa? (Link, Bologna 1997). È inoltre co-fondatore di Nomads & Residents, New York, (2000), curatore CSAV, Fondazione Ratti, Como (2006-2011), docente di “Laboratorio Arti Visive”, IUAV, Venezia (2004– in corso); NABA Nuova accademia di Belle arti Roma (2021-in corso), MFA Faculty, LUCAD, Lesley University, Boston (2009-2016). È co-fondatore e Presidente della Fondazione Lac o Le Mon, San Cesario di Lecce, dal 2015. Da giugno 2018 a luglio 2022 è stato Presidente dell’Azienda Speciale PalaExpo di Roma.