Claudio Marini. Fratelli di sale
L’arte è una formidabile possibilità per ricordare, un dono in cui l’opera si pone in perenne e rinnovabile sintonia emotiva con il lutto, la perdita, la ferita aperta. Creare impone contenuti diversi per ogni artista, ovvio, ma per tutti significa mappare il cuore di un’emozione, entrando nel labirinto dei sentimenti, varcando soglie inconsuete e dolorose, camminando al buio per afferrare i brandelli di luce fuggevole.
Comunicato stampa
Gianluca Marziani L’arte è una formidabile possibilità per ricordare, un dono in cui l’opera si pone in perenne e rinnovabile sintonia emotiva con il lutto, la perdita, la ferita aperta. Creare impone contenuti diversi per ogni artista, ovvio, ma per tutti significa mappare il cuore di un’emozione, entrando nel labirinto dei sentimenti, varcando soglie inconsuete e dolorose, camminando al buio per afferrare i brandelli di luce fuggevole. Questa mostra, senza alcuna casualità, inizia dove si formula la dimensione del lutto privato, nell’epicentro visivo in cui Claudio rimembra Giancarlo, il fratello morto di recente: è la perdita come filo di luce che traccia mappe nel nero catramoso. Le zone luminose somigliano a vele ma anche a polmoni, non a caso due forme che hanno bisogno di aria, di un flusso continuo per gonfiarsi e vivere. Volendo condividere il peso della memoria, l’artista ha inserito alcuni foglietti su cui sono appuntati numeri riguardanti faccende personali, momenti privati che saldano la fratellanza collettiva con una silenziosa frequenza dell’infinito leopardiano.
Gabriele Simongini Nella mostra di Spoleto il lavoro di Marini assume la dimensione di una sinfonia che inizia con toni gravi, quelli di una tragedia individuale e intima (la perdita dell’amato fratello), evocata in modi pacati e misurati, mai personalistici, tanto da tramutarsi quasi spontaneamente e poi saldarsi all’apocalisse collettiva delle bandiere nere e delle opere dedicate ai migranti, dove appaiono diversi oggetti trovati sulla battigia. I movimenti sinfonici cambiano, però, nella seconda parte del percorso, pur nella profonda unità emotiva e concettuale del progetto espositivo, per lasciare spazio alla speranza e al gioco, affioranti nei marosi dell’inquietudine messa in stato di allarme. Ecco allora i “Paesaggi Marini”, come li ha ribattezzati Italo Bergantini con un acuto calembour che coinvolge il cognome dell’artista e quindi le bandiere dense di colori appassionati che chiudono la mostra.
Michele Ainis Nei quadri di Marini s’intravedono periferie degradate, immigrati in viaggio sui loro barconi, piazze in rivolta, la sofferenza dell’uno o l’altro popolo impressa come una decalcomania in una sfilza di bandiere logore e sdrucite. Sono le lacerazioni del nostro tempo, che l’artista converte in immagini a propria volta lacerate, come altrettante ferite incise sulla tela. Eppure quest’intenzione drammatica genera immancabilmente effetti lirici, talvolta giocosi. Succede con il ciclo “Paesaggi Marini”: teli incollati sulla tavola, uno sfondo nereggiante, ma poi sul pathos della raffigurazione cade una pioggia di letterine colorate, come quelle usate dai bambini. La grazia e la disgrazia.
Ugo Pastorino I paesaggi marini mi ricordano le dune di Sabaudia, quella costa meravigliosa tra Latina e Gaeta, che ignoravo e ho conosciuto grazie al comune amico Italo Bergantini. Lui mi ha fatto scoprire la Ciociaria, le città proibite dell'agro pontino, i borghi antichi sui monti Lepini, le fonti del giardino di Ninfa. Con Italo sono entrato nello studio di Claudio, nel centro storico del borgo medievale, in cima a Velletri vecchia. Una sorta di fucina di Vulcano, dove Claudio spruzzava le tele con il cemento e lo smalto, per poi bruciarle col fuoco. E non potrò mai dimenticare la finestrina sulle scale ripide che portavano allo studio, da cui come per miracolo, nei giorni di sole, appariva il mare. Sapere che Claudio era anche un grande amico di Gian Maria Volonté, che abitava a due passi da lui, e con cui ha più volte lavorato, ha accresciuto la nostra vicinanza culturale.
Riccardo Vannucci Spesso, per definire l'opera di un artista, si ricorre alla metafora del lavoro. Il lavoro in senso esteso, anche quando si tratti di un prodotto essenzialmente intellettuale. Nel caso di Claudio Marini il lavoro non è escamotage retorico, e neanche, per una volta, categoria economica quanto piuttosto pratica concreta, legata a un’imprescindibile componente materica che costituisce la cifra predominante dell'artista. Una materia “lavorata”, appunto, impura, contaminata, forzatamente tridimensionale: ad esempio, anche nei momenti di più potente espressività cromatica, il colore rimane colore di una determinata materia fisica, concreta e tangibile, tutt'altro che astratta.