Daniele Mauro
Daniele esplora la dimensione del tempo nell’ambito della fotografia. In una stanza buia il set fotografico registra, in trenta minuti di posa, un soggetto umano apparentemente fermo.
Comunicato stampa
Nell’equilibrio del mondo i venti, le tempeste, le bonacce, le semine e i raccolti si susseguono cicli- camente in scansioni che l’uomo chiama secoli e millenni con la pretesa sempre più assurda di spaccare il minuto-secondo.
La misura del tempo è riassumibile nello scorrere dei granelli di sabbia dentro una clessidra. Basta capovolgerla e scaturisce un nuovo frammento di vita, un tempo che fugge via in attesa di una nuova ricarica che non tarda a sopraggiungere. Tutto scorre, dicevano i filosofi presocratici. Dunque è solo il nostro spirito di onnipotenza che ci fa sentire i padroni del tempo. L’elogio della lentezza sembra un anacronismo nei confronti della fulminea velocità delle nostre azioni e delle nostre ubiquità.
Eppure c’è ancora chi si lascia affascinare dalla dimensione distesa della temporalità. Gente che non ha paura dell’apparente vuoto, della meditazione silenziosa, dell’indagine condotta a piccoli passi, della registrazione di scansioni micro, dell’abbandono alla riflessione intorno ai grandi temi che hanno accompagnato, da sempre, la storia culturale dell’umanità.
E’ il caso di Daniele Mauro e di Fabrizio Agustoni.
Daniele esplora la dimensione del tempo nell’ambito della fotografia. In una stanza buia il set fotografico registra, in trenta minuti di posa, un soggetto umano apparentemente fermo. In realtà i suoi minimi sposta- menti, il suo respiro, la ricerca di nuovi impercettibili equilibri, determinano una registrazione dell’immagi- ne fatta di piccole scansioni che si sovrappongono, divergono, costruiscono aloni, giocano un balletto tra lo spazio e il tempo. Il lungo tempo di ripresa ha facilitato l’illusoria cattura dell’immagine che appare frasta- gliata, sfrangiata, fissa e mobile allo stesso tempo. Ogni soggetto esiste perché è stato in quel punto per il tempo necessario.
Fabrizio lavora come un monaco zen che costruisce un mandala. Ma senza andare tanto lontano, l’artista ci porta nello scriptorium descritto da Umberto Eco nel suo famoso romanzo, nei monasteri appenninici o tra le montagne centroeuropee. Fabrizio è lì, nello studio-cella, come un amanuense, illuminatore, miniaturista, copista, rubricatore a scrivere la sua frase ricorrente su lunghi teli tesi alle estremità da cilindri girevoli. Il tempo scorre sui ricordi di amici scomparsi che gli rievocano le discussioni intorno all’immortalità dell’ani- ma, al valore della scienza, all’interrogativo se la virtù può essere insegnata.
Le frasi si inseguono determinando dei campi arati, proprio come si leggeva alle origini della lingua italia- na nel famoso Indovinello Veronese del VII Secolo: Teneva davanti a sé i buoi (le dita della mano) – arava i bianchi prati (le pagine di una pergamena) – aveva un bianco aratro (la penna d’oca) – ed un nero seme seminava (l’inchiostro che scrive).
I due artisti, accomunati in questa rassegna, esplorano dunque il passaggio lento del tempo, con pazienza, senza fretta, senza protagonismi. L’uno attende che la luce faccia il suo corso, occultandosi. L’altro muove il pennino seminando parole, come rievocando le ombre delle persone care, rinunciando alle interpolazioni. In tempi di grandi e vacui protagonismi, scelte di vita e lezioni d’arte pura.
Sem Galimberti
Dall’Hortus Conclusus
Marzo 2012