Del rituale

Informazioni Evento

Luogo
GALLERIA ALESSANDRO ALBANESE
Via Vettabbia, 3, Milano, MI, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

Dal lunedì al venerdì dalle 11.00 alle 19.00, sabato dalle 15.30 alle 19.00

Vernissage
01/04/2025

ore 18,30

Curatori
Lorenzo Madaro
Generi
arte contemporanea, collettiva

Il rito appartiene all’arte come alla vita, alle religioni come al quotidiano di ciascuno di noi, alla natura e ai suoi principi primari. Il rito è parte integrante dell’esistenza, da sempre.

Comunicato stampa

Il rito appartiene all’arte come alla vita, alle religioni come al quotidiano di ciascuno di noi, alla natura e ai suoi principi primari. Il rito è parte integrante dell’esistenza, da sempre. Ogni cosa che si ripete lo è e l’arte è uno dei più antichi, radicali e rivoluzionari ambiti dell’esistenza che coincidono con una forma rituale perché anzitutto è la ricerca ad appartenere intrinsecamente al rito.

L’artista che prepara il proprio studio per concepire la sua opera compie un rituale, da sempre; anche colui che non adotta uno studio e che per la propria pratica si spinge in una dimensione progettuale diversa, in dialogo con la sapienza artigianale o con il senso profondo della tecnologia, o nello spazio pubblico, pratica un rituale. Percorrendo gli spazi degli artisti, anche quelli privati dei loro pensatoi, siano essi studi o case, ci si rende conto che nella intima espressione del rito vi sono anche delle modalità di custodire e consultare i libri, di comportarsi rispetto alle proprie opere e a quelle altrui, di vivere la dimensione interna all’arte stessa. Ma attenzione a non confondere mai il rito con le abitudini, che sono invece la morte del rito. Il rito nell’arte è libertà per antonomasia, non è come il rito suggerito (o imposto) dalla religione, da seguire pedissequamente e al quale si possono apportare minimi cambiamenti, a volte anche impercettibili, lungo secoli interi di storia; non è neppure come certi rituali di famiglia, che sconfinano nelle abitudini. L’antropologia studia il rito, la letteratura scientifica e non ha dato imprescindibili letture, basti pensare ai fenomeni indagati nell’orbita della ritualità popolare da figure come Ernesto De Martino in cui il rito è legato al pianto per un defunto o a quelle espiazioni di natura performativa riguardanti il fenomeno delle “tarantate” nel sud Italia. Rituali come espressione di comunità, forgiati nei secoli attraverso la ripetizione, che è prima di tutto un modo di autorappresentarsi, in una disciplina modellata su un’armatura di simboli, immagini e procedure.

Di tutti gli ambiti legati alla costruzione di visioni e relazioni, l’arte custodisce ancora oggi una forma radicale, poetica e intima di ritualità che va scoperta, approfondita e poi praticata con il giusto grado di concentrazione, ma anche di apertura agli inciampi e alla visionarietà, perfino quando a praticarla sono stati maestri di lungo corso come Jannis Kounellis e Antonio Paradiso, tra i protagonisti della mostra Del rituale. Ricordo che Kengiro Azuma, straordinario artista, che dal Giappone era approdato a Milano per seguire le lezioni di Marino Marini a Brera, anche da anziano ogni giorno si recava nel suo studio per tracciare un segno a matita su una grande agenda, perché quel gesto quotidiano era una pratica zen necessaria per il suo spirito di uomo e di artista. Non è forse questo un grande e coinvolgente rito?

Quando nel 1967 Jannis Kounellis propone un pappagallo vivo nella mostra Fuoco Immagine Acqua Terra, a L’Attico di Fabio Sargentini a Roma, lo installa su un trespolo posato su una lastra in ferro. Non è forse un compiuto, radicale e poetico rituale, quello operato dall’artista greco trapiantato a Roma e in quegli anni già in ascesa prima del suo esordio, nei mesi successivi, nella compagine poverista armata dalle teorie di Germano Celant? D’altronde per fare la guerriglia – Appunti per una guerriglia è il sottotitolo di un paradigmatico saggio che Celant pubblica prontamente nello stesso 1967 sulle colonne di Flash Art – c’era anche la necessità di materiali duri, provenienti dal mondo dell’industria, che per venivano adottati, come nel caso del ferro, anche in un senso polemico verso la dittatura culturale americana allora già imperante. Da allora il ferro ha rappresentato un principio primario del lavoro dell’artista, un vero e proprio dispositivo generativo e critico, da pensare e ripensare con differenti declinazioni, anche applicando sulla sua superficie specifici materiali come fossero parte integrante di un rituale complesso di stratificazioni, di memorie da preservare per un futuro possibile. L’utilizzo del catrame rientra quindi nell’attitudine di Kounellis di attingere dalla natura i suoi primari respiri vitali, restituendo un senso vorticistico del segno, ma senza dimenticare tuttavia il suo peso e il suo impegno “operaio”.

Voli straordinari di uccelli, idoli, altari, trofei, monumenti che sembrano preistorici, spazi in cui si innestano dinamiche dialettiche di pieni e di vuoti, di forza e di sorprendente levità (apparente): Antonio Paradiso è uno dei grandi maestri della storia dell’arte italiana del secondo Novecento che attraverso la ricerca profonda sui materiali ha realizzato opere di primaria importanza investigando alcuni temi specifici. Quello dei volatili gli appartiene intrinsecamente perché riguarda un ambito radicale della sua esistenza di uomo e d’artista, il viaggio, che ha a lungo praticato in diverse geografie africane con un approccio da antropologo visionario per lunghi decenni. Dalla pietra di Trani al corten, dal bronzo a molti altri materiali, Paradiso ha adottato differenti tecniche e materiali sempre con una libertà totale, riflettendo sul tema dell’archetipo come principio primario di comunicazione e connessione tra uomo e natura, spingendosi nella ritualità della migrazione degli uccelli intesa come metafora di un sentimento di immersione nel mondo naturale.

Contemporanei trofei di una caccia che tale non è: le sculture a parete di Genea Lardini mettono insieme elementi animali con dettagli rizomatici, ingrandimenti sorprendenti, vere e proprie coesistenze di dialettici incontri tra micro e macro elementi. All’essenzialità formale dei perimetri del corpo animale riportato nell’alveo dell’opera si contrappone un desiderio di innestare materiali di differente consistenza materica, dalla carta al forex, all’insegna di un’arte che privilegia il rapporto con lo spazio nella sua dimensione più aperta, richiamando alla memoria quel respiro rituale per eccellenza che appartiene alla natura e al suo ritmo vitale più estremo.

Reverie ha fatto del rito uno dei punti primari del proprio lavoro di ricerca, investigando coralità, ritmi vitali, esperienze legate alla rigenerazione del corpo, alla transizione, alla purificazione e al dialogo con energie altre. Per praticare questo tipo di indagine predilige anche adottare visioni e format che appartengono al rito per eccellenza di questa parte di mondo, quello religioso cristiano, ovvero il polittico. Questo display le consente di lavorare sulle immagini ma anche sull’inserimento attivo di elementi tridimensionali, come un abito bianco, metafora di sguardi e problematiche intimamente legate alla sfera domestica. Attraverso la ceramica invece si muove sull’allegoria, attingendo ancora una volta alle fonti della tradizione letteraria religiosa, ma senza tralasciare l’ambito esoterico, e utilizzando il serpente come elemento onirico e fortemente simbolico.

Elisa Schiavina immagina una tenda capace di adattare la propria conformazione in base allo spazio che la accoglie. Per farlo prende in prestito tessuti ed elementi da possibili realtà, brandelli che riunisce per costruire una struttura-architettura in cui immergersi, un ambiente denso di immagini e possibili sogni in grado di generare spazi di pensiero. Il suo immaginario onirico la guida verso la costituzione di stratificazioni che non sono soltanto materiche, quanto di senso, proprio perché esplicitano riferimenti, criptici simboli, allegorie di un mondo che è prima di tutto interiore, ossia il primo spazio possibile del rito.

Joanna van Son è un’artista che concepisce la pittura come transito e sovrapposizione di materia in grado di rigenerarsi e cambiare conformazione praticando una ritualità che è la pittura stessa. Attraverso una poetica del frammento assembla e affianca schegge di pittura che man mano costituiscono un’ossatura materica ben definita, strutturandosi come corpo autosufficiente e distante da ogni possibile riferimento al dato naturale. Al contempo i suoi dipinti sono caleidoscopici repertori di immagini impossibili, da rintracciare tra le pieghe delle dense pennellate che la costituiscono, che sono lì a ricordarci quanto la pittura sia essenzialmente un discorso di trasmissione del segno. Non è forse questo il primo gesto rituale espresso dall’uomo per esprimere, anzitutto, la propria presenza agli altri esseri viventi?

Così questa mostra in realtà ci parla dell’umano, dei suoi aspetti magici e dei suoi paradossi, dei suoi aspetti più fattuali espressi mediante un gusto per le storie, anche quelle più private e intime. La storia, per tutti loro e sotto differenti sguardi, è un grande archivio in cui inseguire immagini, segni, strati, che attraverso tecniche differenti vengono tracciate sulla superficie delle rispettive opere. Il gesto è parte integrante di un processo primario di espressione, che vede le differenti tecniche come mezzo primario di dialogo con un altrove che non è soltanto lontananza dal reale, ma presupposto essenziale di dialogo con l’essenza dell’armonia (e della disarmonia) delle forme stesse, di volta in volta recuperate, assemblate, ripensate.

Del rituale quindi è come un grande giardino denso di possibilità di lasciarsi trascinare, come se stessimo navigando in un mare di segni, tracce, allegorie e contraddizioni che ci scorrono dinnanzi agli occhi. Noi non possiamo fare altro che viverle, captarle, introiettarle, transitando dalle esperienze degli artisti attivi già dal doppio decennio Cinquanta-Sessanta, quindi dal post-informale all’Arte Povera e oltre, per giungere agli esiti del Post-Internet e di ci che oggi si investiga nell’orbita di una persistente surrealtà che guarda al reale mescolando onirico, ironico, perverso e tragico. Quindi il rituale diventa una possibile strada per percorrere il reale, quello sfuggente che è davanti ai nostri occhi, sotto i nostri piedi, in questo momento storico più drammatico che mai. Solitamente i testi si aprono con una citazione. Questa volta invece è il caso di concludere prendendo in prestito parole che sono immagini: “Guardi, c’è il mare tutt’intorno. Dovremo navigare per sempre. E vivere, per sempre” (dall’Arca russa di Aleksandr Sokurov, 2002).