Dolomiti contemporanee – Azimut
L’Azimut è un perfetto compromesso tra l’empirico e il metafisico. Una strada per cui l’obiettivo, l’arrivo è tutto ciò che conta.
Comunicato stampa
In una mia suggestione infantile di quando facevo scout, la marcia Azimut rappresentava per me un passaggio rituale, affascinantissimo e mitizzato. Si tratta di un percorso, una camminata di cui si sceglie il punto di partenza e il punto di arrivo. Lo scopo è camminare seguendo una linea retta utilizzando l'angolo azimut rispetto al nord.
Nella mia ingenuità pensavo che qualsiasi ostacolo ci si fosse trovati di fronte, altra soluzione non c'era se non scavalcarlo in qualsiasi modo. Che si trattasse di una montagna, di un lago o di un palazzo.
La scelta di raccontare l'Azimut mi è scaturita fuori con arroganza e senza possibilità di ripiego. È sgorgata da una serie di suggestioni, dal ripercorrere con i sensi la montagna, dal cercare di trovare un filo conduttore sensato tra gli artisti scelti. L'Azimut è un perfetto compromesso tra l'empirico e il metafisico. Una strada per cui l'obiettivo, l'arrivo è tutto ciò che conta. Come un catalizzatore di energie mi ha condotto a conoscere da vicino il modo di procedere e di operare dei sei artisti e in tutti loro ho riscontrato un istinto al procedere identico a quello della marcia Azimut. Inesorabile, determinato, grave. Quello che più mi ha commosso nella ricerca di ciascuno è quella sensazione di perpetua costanza. Inscalfibile e solenne. Una ricerca oramai matura e consapevole che tenta di ingannare il tempo e lo spazio ripetendo gesti futili e ossessivi, sterili e tenaci. Come i cambiamenti indolenti della natura, come le pietre di Sass Muss, frutto del lento trascorrere di ere geologiche.
Apparentemente governato dalle proprie spinte fisiologiche, il duo torinese Alis/Filliol, lavora per dare una propria declinazione a due grandi “misure” con cui l'uomo si confronta ogni giorno: spazio e azione. Due macrosistemi che Alis/Filliol modulano e filtrano attraverso la propria persona fisica, in ascensionale tensione tra fisicità e idea.
Lo spazio.
O meglio, nella loro ricerca, l'analisi del rapporto tra spazio reale e spazio percepito, tra quella superficie tridimensionale a tratti visibile che forma la realtà e il nostro io, vissuto dall'interno. Che porzione di area occupa il nostro corpo (vedi Occupare il minor spazio possibile)? Come tracciare una linea orizzontale correndo in un paesaggio di masse verticali (vedi il video Muro)? Ma soprattutto, è reale o oleografico lo spazio come lo viviamo?
Attraverso il riempimento del vuoto o viceversa lo svuotamento del pieno abituano la loro mente ad entrare in una sorta di trans che li avvicina poco a poco ad una risoluzione. Una verità lontana da ampollosi calcoli matematici, viceversa vicinissima alle paure più triviali e ai disagi psicologici dell'essere umano come claustrofobia e agorafobia.
L'azione.
Agire per loro risulta sempre un gesto forte e vigoroso. Il lavoro concluso, abbandonato nello spazio espositivo, si trova stretto nella definizione di “cenere di un atto performativo”. Più che di cenere nel caso degli Alis/Filliol dovremmo parlare di carboni ancora ardenti, elettrici, forieri di un'energia tutt'altro che esaurita, come in Testa di sirena urlante. Come una bomba inesplosa, il loro lavoro è lì, carico di tensione, un nucleo atomico compatto e saturo di energia. Azione è sempre uguale a corpo. Ma non in senso edonistico. I due artisti sono presenti solo nella misura in cui sia possibile mettere mano in prima persona al loro lavoro, faticando, trasportando pesi e lasciandone le impronte di sudore. È solo così che quell'energia passerà attraverso la loro persona, una scossa di adrenalina imprescindibile, che andrà immancabilmente a scaricarsi in tutti i materiali che compongono l'opera. Materiali ovviamente estremi dal punto di vista di isolamento/conduzione. Quello che trasmettono i lavori (come Calco di due corpi in movimento nello spazio), anche ignorandone totalmente l'operato, è sforzo. Una fatica avvolgente e perentoria. Come nelle varie Fusioni a neve persa, si consuma energia per la cecità, per una performance ostentatamente sterile e proprio per questo carica come una molla.
L'Azimut di Manuele Cerutti, senza ombra di dubbio, volge verso le alte sfere celesti. Parte da un angolino insignificante e punta allo zenit. Senza fretta. Il suo percorso è imperniato su una sublimazione di stati d'inconscio, del perturbante uniti alla ricerca della fonte primordiale di un'energia statica. La pietra non è altro che un microcosmo densissimo che gode di una concezione temporale dilatata rispetto all'uomo, così fragile ed effimero al suo confronto. Memento mori d'eccezionale raffinatezza, la pietra sembra quasi non appartenere a questo mondo, ma c'è, e sta lì, anche se è una semplice Pietra senza nome. Non ci considera perché la nostra presenza nella sua dimensione cronologica non può imprimersi in alcun modo. Siamo al pari di un filo d'erba. Che si tratti di roccia, marmo, fossile, meteorite, ciascuna pietra custodisce una potenza dentro di sé, immobile e imperitura. La pittura è impeccabile e dichiaratamente non finita, fluida ed equilibrata. Cerutti si limita a mostrare solo ciò che risulta necessario ad una corretta lettura dell'opera. Quello che manca sembra essere evaporato dalla tela e attrae il nostro occhio, tormentato da quella carenza di un solo Mezzocane o dall'assenza di In and out of myself. Il traballante mondo dei suoi lavori ci cristallizza in un limbo oscuro, misterioso, con inspiegabile gradevolezza. Siamo consci di vivere un annullamento esperienziale a favore di un abbandono endemico verso pure proiezioni fantasmatiche. Fradici di uno stato di magica sospensione, i dipinti di Cerutti sembrano glorificare quell'attimo in cui le forze e gli equilibri si trovano a pari potenze e, per questo, si annullano l'una con l'altra in un equivoco stato di calma apparente. Come quel secondo in cui il pendolo indugia prima di tornare indietro, sospeso tra spinta meccanica e gravità, o come quell'inquietante attimo di riposo tra un'espirazione e il respiro successivo...
Sedotto ossessivamente da una bellezza non scontata, Paolo Gonzato si prende cura dei suoi artefatti caricandoli di una preziosità spesso non solo metaforica. I suoi lavori sembrano sintetizzare l'indimenticabile suggestione composta da lusso, calma e voluttà emergendo, ieratici, grazie ad una non meglio definibile seducente emanazione. Il suo percorso Azimut è riscontrabile in questo interesse dal sapore zen per le cose più insignificanti, unito a quella persuasione di chi è in grado di usufruire di una visione privilegiata e, per questo, cammina imperterrito verso una direzione. L'artista è guidato da una logica d'istinto, informale ma sottilmente colta, che lo scorta attraverso i più diversi mezzi espressivi.
It's not right è una riflessione profonda sul significato dell'esistenza e sull'imperscrutabilità del disegno divino. È una lotta persa in partenza nei confronti di quel concetto di eternità in cui l'artista ha smesso di credere, in equilibrio alterato tra cinismo ed emotività. Fragili piramidi di bambù come simulacri, ceramiche rotte come vitelli d'oro, rattrappiti scheletri d'ombrelli come simbolo di caducità e una tovaglietta sfilacciata come vanitas contemporanea. Il viola è certo un colore modaiolo ma anche ricco di significati legati alla purificazione quaresimale, alle superstizioni popolari, come anche, per Jung, fonte di ispirazione e forza spirituale. Il viola si adagia su tutto come un manto triste e inesorabile. L'unica fonte certa ma evirata sono i testi scritti di alcuni telegrammi, tutti accuratamente censurati da fori circolari.
Nella serie Out of stock rigidi arlecchini si presentano ingessati in cartoni appoggiati al muro. Sembra di assistere a una sconsolata parata carnevalesca fatta di allegria preconfezionata e sorrisi forzati. Perso lo squallore da circo polveroso, i pensionati arlecchini sono cristallizzati in forme astratte e rigide. Abbandonato il corpo, la loro essenza è ridotta a quei rombi di colori, svuotati di fisicità ma pregni di significati scaturenti da una memoria collettiva inscalfibile.
La parte più legata all'esteriorità dell'artista è invece rappresentata da Gold experience, una patina di superficialità purissima e preziosissima, come la foglia oro 24 carati, che si distende sugli oggetti più sporchi e malconci della quotidianità. Un tributo al nostro secolo in cui la maschera che portiamo diventa, per assurdo, un accessorio imprescindibile della nostra più intima interiorità.
Attraverso una serie di innesti, il cui numero potrebbe tendere all'infinito, Fabrizio Prevedello ha sperimentato una fusione geneticamente impossibile in natura: l’inserimento di un marmo “straniero” sul taglio di una cava di marmo autoctono. Con questa operazione (che prevede un percorso simile all'Azimut) deposita un oggetto estraneo in un luogo nuovo, modificando per sempre un ambiente abituato a creare se stesso attraverso la naturale decantazione mineraria e geologica. Un atto d'amore immenso nei confronti di questa pietra rara e pregiata, che affonda le sue radici nella storia esperienziale dell'artista che, da diverso tempo, si trova a maneggiare il marmo conoscendone profondamente durezza, lavorabilità, difetti. L'idea di poter far conoscere e poi accoppiare materiali dalla storia geologica distante, creando così incroci piacevolmente meticci, ritorna in declinazioni differenti in tutta la poetica artistica di Prevedello. Equilibri fragili e ménage improbabili possono provocare deliziosi contrasti e tattili e visivi. La sonorità squillante del vetro con la pastosità odorosa della grafite. La rigorosa ardesia accostata all'opaca morbidezza del gesso. La vivacità screziata del legno fusa assieme all'umida cremosità dello stucco. Contrasti non solo piacevoli, ma anche densi di una completezza concettuale che tenta di ammansire le incompatibilità e le lontananze metaforiche di pensieri e stili di vita, nonché di occuparsi degli altri avvolgendoli con un senso di primordiale protezione. Come in Novembre nuovo o in Fa un po' freddo ma non preoccuparti, in cui i materiali si assemblano in piccole architetture di salvataggio, ricreando un'accoglienza che sa di rifugio domestico, di focolare. Il tentativo è quello di creare un oggetto assolutamente nuovo ma al contempo heimlich, quindi intimo, familiare e velatamente inquietante. Inspiegabilmente alcune sculture di Prevedello non paiono esser state toccate da mano umana, hanno un retrogusto mistico e alieno, sono chiuse in se stesse, come nel lavoro I petali salgono (arni) in cui una piramide filosofale emerge da un mare di grigiore marmoreo. Come se un'interiorità, troppo delicata per essere esposta, dovesse essere corazzata per poter sopravvivere, scegliendo arbitrariamente una non-esistenza (nella concezione pragmatica ciò che non conosciamo, ovvero non siamo in grado di percepire con i sensi, non esiste, ovvero non è esperibile). Nel momento in cui fosse portata alla luce, immancabilmente perirebbe.
Percezione è la parola d'ordine per entrare nell'universo dei lavori di Laura Pugno. Qui la marcia Azimut è didascalica e si traduce, nei suoi Paesaggi alle spalle, in passeggiate con uno scopo preciso: quello di restituire alla realtà fenomenica un punto di vista nuovo quanto aleatorio. Il mondo, ci dice l'artista, non è quello che percepiamo, esiste a prescindere dall'occhio umano. Il referente reale esiste, certo, ma solo come suicida. L'acme della sua condizione è l'atto kamikaze che ne ridiscute il principio stesso di esistenza. E così scompare, lasciando però una traccia, un'impronta difficilmente riconducibile a quella porzione di realtà da cui deriva. I materiali che utilizza Pugno sono artificiali. Esattamente come la direzione verso cui punta la sua ricerca: artificiale è ogni media prodotto dall'uomo a sua “immagine e somiglianza”, prolungamento del proprio corpo con lo scopo di tendere ad un generico miglioramento della qualità di vita. Quegli stessi media offrono però all'artista tutt'altri spunti di riflessione legati alla loro caducità e al loro potere assorbente. Che cosa recepiscono dell'ambiente circostante? E cosa accadrebbe se venisse negato loro il diritto di “mediare” tra l'osservatore e l'osservato? L'artista mette in atto un lavoro meticoloso e paziente privando di funzionalità questi materiali fino a farne affiorare l'anima, lo scheletro. Costretto ad una disfunzione percettiva, l'osservatore è obbligato a guardare attraverso un filtro, una maschera che non gli permette più di fruire la realtà se non sfocata e distorta. Questi materiali divengono pura materia inorganica, statica ma anche, perché no, piacevolmente gradevole. Creatrice di un mondo parallelo al nostro, Laura Pugno parte dalle forme della natura per annientarle a favore di strutture puramente aprioristiche. Anche nei lavori più di superficie si nasconde, dietro la spinta formale, un ampia digressione concettuale: le serie come Dry Digging, Campo Morfico e KWh racimolano a piene mani da eventi reali traducendoli in apparizioni metapittoriche. I colori sono ancora una volta debitori delle tinte più accese e artificiose e le forme si appiattiscono saturando lo spazio di filiformi e omogenee architetture. Ma non si tratta solo di un pretesto grafico bensì di un atto di curiosità, di uno studio acuto sulla percezione umana, di un duro allenamento alla morte e resurrezione sinestetica in favore di un'apertura al reale in quanto tale e a prescindere dai recettori umani di cui siamo dotati per verificarlo.
Artisti:
ALIS/FILLIOL
MANUELE CERUTTI
PAOLO GONZATO
FABRIZIO PREVEDELLO
LAURA PUGNO