Domenico Ventura – da Altamura
Dopo quasi vent’anni di assenza da Roma, la Takeawaygallery, in collaborazione con lo Studio Abate, propone una ricognizione sul lavoro di Domenico Ventura, pittore da Altamura che ha narrato con vena eccentrica e corrosiva cinquant’anni di storia, quotidianità e costume (o malcostume?) sociale e culturale della provincia contadina e non solo.
Comunicato stampa
Dopo quasi vent’anni di assenza da Roma, la Takeawaygallery, in collaborazione con lo Studio Abate, propone una ricognizione sul lavoro di Domenico Ventura, pittore da Altamura che ha narrato con vena eccentrica e corrosiva cinquant’anni di storia, quotidianità e costume (o malcostume?) sociale e culturale della provincia contadina e non solo. I dipinti, esposti in via dei Sabelli a Roma dal 4 al 28 aprile, sono in totale quindici, frutto della produzione dell’ultimo quinquennio.
Riproporre oggi l’universo mordace di Ventura, popolato da folli, ebeti, santi ed eroi significa non solo ripercorrere le alterne vicende del paese da una prospettiva alternativa e insolita, dai margini geografici, politici e umani, ma mettere in luce il versante “borderline” (non meno rilevante) del sistema arte e fare il punto su una tradizione controcorrente, che ha contribuito a sviluppare una poetica incentrata sul frammento, la lateralità, la diversità, il confine, il pensiero non istituzionalizzato.
Se il punto di partenza per ogni immagine è la fotografia, il fine ultimo dell’opera è la simpatia, intesa sia come identificazione che come presa di distanza dell’osservatore attraverso il riso, vero fulcro, retroterra e soggetto del lavoro, che nella sua variante di ilarità chiassosa introduce il carattere scomposto, caotico, carnevalesco e grottesco dei personaggi e del mondo che affollano. Nel ritrarre amici, conoscenti, familiari e perfetti sconosciuti studiati attraverso l’occhio meccanico il maestro altamurano ci mostra, con lo scherno, l’ambigua faccia della morale: cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi giudica e chi è giudicato?
Le sue maschere, mostri, gente comune testimoniano un cosmo tutt’ora ancorato a pratiche quasi medievali e a ritmi dettati dal muovere delle stagioni e dalle necessità biologiche di animali e persone e rappresentano un compromesso tra passato presente e futuro, portando sui loro volti le cicatrici di una lotta tra le istanze del cambiamento ed una mentalità ancora primitiva.
L’uso del ritratto è funzionale ad accentuare gli esiti tragicomici di tale processo, la fisionomia e le pose tormentate da timori, innocenza, ingenuità e “perversione”, mentre il verismo analitico dettato dalla macchina fotografica crea lucide composizioni che indugiano sul minimo dettaglio. Le figure monolitiche occupano tutta la superficie ed anche quando si disperdono in messinscena corali non allentano mai il travestimento che indossano. L’occhio del pittore oscilla tra freddo cinismo e divertita partecipazione: il suo lavoro, che si nutre di richiami e spunti figurativi che spaziano dall’iconografia sacra medievale ai prodotti della cultura contadina e paesana, si inscrive nella tradizione oggettiva e realista, giunta fino a noi nella versione graffiante e non edulcorata attraverso le forme “basse” della satira e dell’illustrazione.