Doppia personale di Tai Shani e Alice Visentin

Informazioni Evento

Luogo
GIO' MARCONI
via Tadino 15 20124, Milano, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

opening dalle 18.00 alle 21.00

Dal martedì al sabato dalle 11.00 alle 18.00

Artisti
Alice Visentin, Tai Shani
Generi
arte contemporanea, doppia personale

La galleria Giò Marconi di Milano ospita una doppia personale con protagonisti Hai Shani e Alice Visentin

Comunicato stampa

TAI SHANI

Lavish Phantoms of the House of Dust

Inaugurazione: giovedì 3 ottobre 2024; 18-21 4 ottobre – 20 dicembre 2024
martedì – sabato: 11-18
Gió Marconi, Via Tadino 15, Milano

Lavish Phantoms of the House of Dust

Lavish Phantoms of the House of Dust [Fastosi fantasmi della Casa della Polvere] è il titolo di un’installazione immersiva di Tai Shani. Di questo nuovo corpus di opere fanno parte sculture, dipinti, disegni e animazioni in cui storie gotiche si intrecciano a oggetti-feticcio e forme illusorie. Ne deriva un ambiente visivo carico di riverberi spettrali e tracce infestanti che si insinuano attraverso le striature del tempo e dei suoi echi.

La splendida serie di seni in vetro soffiato, ciascuno di un verde lattiginoso, illuminato dall’interno da una lampadina incandescente è molto più di un semplice lampadario. Funge infatti da modello delle superfici, dei simboli e delle risonanze psicosociali che compongono i “Fastosi fantasmi della Casa della Polvere”. Il seno, morbido e sensuale per natura e (in entrambi i sensi) donativo, fluttua in totale libertà dal corpo. Si moltiplica (quasi inaspettatamente) e la sua carnosità è sostituita e imitata dal materiale più fragile e friabile, così da spingere tutto l’insieme fino un punto di fantasmagorica delicatezza.

Ciò vuol dire che questo lampadario si muove timidamente verso due direzioni al contempo: da un lato quella carnale e sontuosa del seno; dall’altra la fantasia astratta del femminile come ornamento a rischio di infrangersi, letteralmente penzolante a mezz’aria.

“Fastosi fantasmi”, appunto. Questa mostra si colloca giusto al confine tra eccesso e atrofia, straripamento ed evanescenza. Sono questi lo stato d’animo, il tono, la trama affettiva dei lavori esposti. Tappeti decorati di fotografie spiritiche d’epoca vittoriana, teschi in lapidaria e bizzarra ripetizione che fanno capolino, assemblandosi tra loro, a partire da brandelli di simmetrie e forme psichedeliche, parte integrante dello slang visivo della mostra: alla stregua del già citato dispositivo luminoso, lo spettacolo procede con una serie di trasmogrificazioni e suggestivi effetti che sono al tempo stesso sconcertanti enigmi visivi. Prendiamo il gigantesco paio di guanti in pelle scamosciata: quali mani sono così grandi da poter indossare questo lussuoso accessorio?

La Casa della Polvere: non una semplice casa polverosa, ma una sorta di palazzo signorile o dimora aristocratica il cui simbolo araldico e la cui eredità storica potrebbe esser fatta di detriti polverizzati, ammassi di inconsistente e persistente nulla. Vale a dire, il fastidioso rovescio dell’accumulo, il suo gemello malinconico e cattivo. Il video in mostra presenta un dorso femminile dalla pelle traslucida, dal quale si intravedono muscoli, organi e scheletro, il volto della donna, con il corsetto quasi del tutto slacciato, si riflette – perfettamente incorniciato – nello specchietto che tiene in mano.

“Il mondo per me era un segreto”, pronuncia una voce, “il mondo per te era aperto, una parte del segreto e del me tutto entropico che perisce nell’istante in cui è rivelato”. Si potrebbe dire che l’elegante cosmologia che anima la mostra derivi dalla tensione agente in questa frase: tra “entropia” e “rivelazione”, offuscamento e soffiata, e al tempo stesso in bilico tra sgretolare e costruire, vacillare e affermare. Sono questi i poteri – i privilegi millenari – dei fantasmi. In un’epoca stravolta dalla rovina ipercapitalistica e dalla disgregazione della socialità (che è in fase di insorgere e ricomporsi), tutti noi infestiamo la Casa della Polvere.

ALICE VISENTIN

Everyday Mystery

Inaugurazione: giovedì 3 ottobre 2024; 18-21 4 ottobre – 20 dicembre 2024 martedì-sabato; 11-18
Gió Marconi, Via Tadino 15, Milano

Un baluginare di forme – più o meno distinte – popola le tele di Alice Visentin. Sovrapponendosi e infiltrandosi l’una nell’altra, sembrano emergere o dissolversi, come se fossero catturate in un fluido divenire.

Visentin lascia che l’acqua, l’ombra delle piante e altri fattori esterni definiscano il fluire iniziale dei colori base, per poi delineare, quasi abbozzare, creature e figure, sopra le quali o lungo le quali traccia singole lettere o intere parole. Un senso di abbandono, di perdita di controllo, perfino di trance emana da questi dipinti, un desiderio di casualità che prelude al mistero. In questa rinuncia al controllo vige un senso di spontaneità che dona alle opere un effetto ipnotico: un mondo accogliente, magico e liquido di immagini e storie. Queste immagini e queste storie non sono figure immaginarie: sono cose, scene, espressioni e simboli che fanno parte della nostra quotidianità, riconoscibili e familiari. Mele e lingue possono trovarsi le une accanto alle altre, così come una luna, un occhio lacrimoso, un angelo, due persone che condividono un letto, dei cuori, un volto sbigottito, una scarpa.

Visentin evoca questo mondo onirico da un’infinità di generi che partono dalla storia della lanterna magica ai cartoni animati per giungere fino al segno distratto degli scarabocchi. La politica visiva che sta dietro a questa estetica è ben lontana dall’idea del pittore dal tratto concettuale, chiaramente riferibile e collocabile entro un certo canone. Ricorda piuttosto l’interesse surrealista di sfidare ogni logica nella rappresentazione. Tuttavia, a differenza del surrealismo, Visentin non si chiede il “perché”, il come mappare la psiche, ma è più interessata all’esperienza del sensuale e forse, più che sbloccare l’inconscio dell’autrice, i dipinti rappresentano l’allegoria di un sé che si trasforma in un altro sé. Sono guidati da un senso di trasformazione più profondo e corporeo, in cui il sé si sposta, si evolve e si dissolve costantemente nel mondo che lo circonda: un io in divenire. Chi non conosce l’artista, potrebbe pensare che le opere siano frutto di un lavoro collettivo: realizzate non da due ma da più mani, non con un ritmo costante ma con diversi ritmi.

Retroilluminata, in modo che fronte e retro si fondano, la tela piatta si svolge in uno spazio fittizio che racchiude una stratificazione di frammenti onirici, a metà tra pittura, gioco d’ombre e disegno di scena. Su un tavolo, brandelli di tela sono disposti a mo’ di libri. Muovendosi tra le opere, queste si relazionano con il corpo, creano spazi meditativi fatti di grovigli di forme che alludono a paesaggi, volti, espressioni, animali mitologici, piante e molto altro. L’allestimento appare quasi arcaico, come se si trattasse di pitture rupestri custodi di memoria con una storia da raccontare, reminiscenti di un senso storico profondamente consapevole del proprio scarto dalla realtà.

Tuttavia, se guardano al passato, guardano anche al futuro, in un libero gioco di rimandi volto a forgiare un nuovo vocabolario per cercare, ancora una volta, di incantare il mondo.

Geraldine Tedder