E luce fu – Balla | Fontana | Eliasson | Leotta

Informazioni Evento

Luogo
COMPLESSO MONUMENTALE DI SAN FRANCESCO
via Santa Maria , Cuneo, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

dal martedì al sabato dalle 15.30 alle 18.30, la domenica dalle 10.30 alle 18.30

Vernissage
29/04/2021

no

Biglietti

ingresso libero

Artisti
Lucio Fontana, Giacomo Balla, Renato Leotta, Olafur Eliasson
Curatori
Marcella Beccaria, Carolyn Christov-Bakargiev
Generi
arte contemporanea, collettiva

Il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e la Fondazione CRC presentano E luce fu, mostra che raccoglie quattro importanti opere incentrate sulla luce realizzate da Giacomo Balla, Olafur Eliasson, Lucio Fontana e Renato Leotta, appartenenti alle Collezioni del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea.

Comunicato stampa

E luce fu
Giacomo Balla, Lucio Fontana, Olafur Eliasson, Renato Leotta

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza

Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII

A cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria
24 ottobre 2020 – 14 febbraio 2021
Visite inaugurali: 24 ottobre 2020, ore 10.30, 11.30, 15.30 e 16.30, prenotazioni obbligatorie su www.fondazionecrc.it
Complesso Monumentale di San Francesco - Via Santa Maria 10, Cuneo

Il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e la Fondazione CRC presentano E luce fu, mostra che raccoglie quattro importanti opere incentrate sulla luce realizzate da Giacomo Balla, Olafur Eliasson, Lucio Fontana e Renato Leotta, appartenenti alle Collezioni del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea. Allestita presso il Complesso Monumentale di San Francesco a Cuneo, la mostra è parte del progetto di collaborazione volto a promuovere nel territorio cuneese la conoscenza di lavori di artisti di fama internazionale presentati dal Museo.
La mostra è a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, con la consulenza curatoriale di Marianna Vecellio per il progetto di Renato Leotta.

Proponendo un percorso immersivo e sensoriale, le opere degli artisti in mostra sono installate in relazione con gli spazi della Chiesa di San Francesco. Al centro della navata centrale della chiesa, i visitatori incontrano Feu d’artifice (Fuoco d’artificio), 1917, storica opera realizzata da Giacomo Balla (Torino, 1871 – Roma, 1958) durante gli anni di adesione al Futurismo. L’opera, che fu presentata per la prima volta il 30 aprile 1917 al Teatro Costanzi di Roma, consiste in un vero e proprio spettacolo teatrale nel quale Balla, sulle note di Igor’ Stravinskij e la regia del noto impresario dei Balletti russi Sergej Djagilev attiva uno scenario i cui protagonisti sono volumi geometrici luminosi. Forme piramidali e parallelepipedi appuntiti la cui struttura lignea è ricoperta di stoffe dipinte e colorate, essi hanno all’intero luci elettriche, ritmicamente azionate con inediti effetti di movimento e vitalità. Balla spiega che gli elementi rappresentano “gli stati d’animo dei fuochi artificiali” che la musica di Stravinskij gli aveva suggerito. Questo teatro di forme dall’architettura alogica, animato da continui giochi di luce, manifesta ampiamente il desiderio formulato nel 1915 da Balla insieme a Fortunato Depero nel manifesto “Ricostruzione futurista dell’universo” di liberare l’arte nella vita, esaltando l’istinto ludico dell’uomo. Lo spettacolo dura soltanto tre minuti, in accordo con i principi di un teatro nato dall’intuizione e capace in pochi istanti di condensare molteplici situazioni e idee, come proclamato dal teorico del movimento futurista, Filippo Tommaso Marinetti.
Gli elementi che compongono la scena di Feu d’artifice sono stati ricostruiti al Castello di Rivoli in occasione della mostra Sipario, organizzata nel 1997 e dedicata allo stretto rapporto fra teatro e arti visive. La ricostruzione si è basata su approfondite ricerche, a partire dagli oltre venti fogli contenenti i progetti di ciascun elemento dello scenario, oggi conservati al Museo Teatrale alla Scala di Milano.

Con Ambiente Spaziale, 1967 (1981), la mostra offre la rara opportunità di esperire un importante lavoro di Lucio Fontana (Rosario di Santa Fe, Argentina, 1899 – Comabbio, Varese, 1968). II 5 febbraio 1949, Fontana allestì il suo primo Ambiente spaziale a luce nera, detto “Ambiente nero”, presso la Galleria del Naviglio di Milano, che venne illuminata con lampade di Wood, la “luce nera” che fa risaltare i colori fosforescenti con cui sono ricoperte alcune forme astratte pendenti dal soffitto. Questo stesso principio è articolato in modo diverso in Ambiente spaziale, oggi facente parte delle Collezioni del Castello di Rivoli: la luce di Wood rivela la doppia traiettoria lineare di circoli dipinti a colori fosforescenti. Lo spettatore, secondo le intenzioni dichiarate dall’artista, si trova nell’ambiente a tu per tu con se stesso: non è più chiamata in causa una percezione solo visiva, ma tutti i sensi concorrono a fare della percezione un’esperienza totale, psicologica e fisica. II lavoro ambientale di Fontana si pone come una prima realizzazione dei progetti enunciati nei manifesti del Movimento spazialista, che l’artista fonda a Milano nel 1947. “L’opera d’arte è eterna, ma non può essere immortale”, afferma il primo Manifesto dello Spazialismo. Perché sia immortale, l’arte deve svincolarsi dalla materia deperibile, e farsi puro gesto, pura idea, grazie al concorso di strumenti espressivi mutuati dalla tecnologia. L’Ambiente spaziale in collezione è stato realizzato per la mostra Lo spazio dell’immagine organizzata a Foligno nel 1967. Dopo la morte di Fontana, l’ambiente è stato ricostruito da Gino Marotta per essere esposto in occasione di altre mostre; l’esemplare posseduto dal Castello di Rivoli è l’unico non distrutto dopo l’esposizione, avvenuta a Rimini nel 1982. Esso è stato donato al Castello da Teresita Rasini Fontana, vedova dell’artista.

Lo spazio dell’abside è animato dai giochi di luci e ombre di The sun has no money (Il sole non ha soldi), 2008, di Olafur Eliasson (Copenaghen, 1967), artista che pone al centro della propria ricerca la soggettività di ciascuno dei visitatori e che sin dall’inizio del suo percorso indaga la luce quale tematica cruciale nell’ambito della conoscenza del reale. Eliasson si riferisce spesso ai suoi lavori come a “macchine”, intendendo che la vera opera d’arte è il prodotto dell’incontro tra gli oggetti fisicamente disposti nello spazio e l’unicità degli individui che li percepiscono. Nel caso dell’installazione in mostra, Eliasson utilizza due fari da teatro, puntandone i potenti fasci luminosi su due strutture fatte da anelli concentrici in materiale acrilico. Appesi al soffitto e azionati meccanicamente, gli anelli proiettano nello spazio espositivo molteplici ombre, producendo cerchi di luce colorata che disegnano forme inedite lungo le pareti dello spazio. L’effetto ottenuto rende l’ambiente avvolgente e lievemente ipnotico, trasformandolo in un luogo dove anche il trascorrere del tempo e la sua percezione diventano oggetto di numerose riflessioni riguardanti la luce e i suoi effetti. Come nel caso di tutte le sue opere, anche in The sun has no money Eliasson lascia visibili gli elementi meccanici ed elettrici che compongono l’installazione, invitando i visitatori a interrogarsi sulle modalità della percezione così ottenuta. L’opera, in comodato al Museo da Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, è stata realizzata dall’artista per il Castello di Rivoli, in occasione della mostra 50 lune di Saturno, organizzata nel 2008.

Il percorso espositivo prosegue con Sole, 2019-2020, di Renato Leotta (Torino, 1982), installazione che si snoda attraverso l’intero ambiente della Chiesa. Sole consiste in vecchi fari di automobili dismesse installati per illuminare dettagli significativi dell’architettura e dell’impianto decorativo interno dell’edificio. A partire da una ricerca avviata nel 2019, Leotta recupera le luci di vari veicoli riconfigurandole quali agenti capaci di sostituirsi a tradizionali impianti di illuminazione. L’azione dell’artista trasforma i vecchi fari in dispositivi che danno luce a specifici dettagli di spazio altrimenti trascurati. In questo modo, Leotta s’interroga sui cambiamenti sociali avvenuti in più parti del territorio piemontese che, da centro legato all’industria fino alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, si è indirizzato verso la produzione della “cultura contemporanea dell’intrattenimento”, secondo le parole dell’artista. L’installazione è nata su commissione del Castello di Rivoli, inizialmente presentata a Venezia al Piedmont Pavilion nel 2019 e poi al Castello in occasione della mostra personale dell’artista.

Carolyn Christov-Bakargiev, Direttore del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, afferma “Nella cultura occidentale, la luce è da sempre simbolo di chiarezza e pura conoscenza, di quella suprema finezza del pensiero a cui ogni seguace di Platone dovrebbe aspirare. Ma qualcosa di irrazionale e libero si ritrova nell’esperienza dell’abbaglio vissuto invece durante l’estasi, parte anch’essa della nostra cultura e descritta minuziosamente da Dante nell’ultimo canto del Paradiso e successivamente anche da alcune sante, come Teresa d’Avila (1515-1582) nei suoi diari. Oggi, la luce dello schermo dei nostri cellulari e computer ci abbaglia in senso lontano sia dalla chiarezza del pensiero, sia dall’estasi. Attraverso una mostra di opere d’arte realizzate con la pura luce come materia, riflettiamo sul mondo reale, avvolti dai raggi elettromagnetici”.

“Grazie alla collaborazione con il Castello di Rivoli, la Fondazione CRC propone un nuovo appuntamento artistico di altissimo livello: un evento di vera divulgazione culturale che porta a Cuneo opere non solo di artisti conosciuti in tutto il mondo, come Giacomo Balla e Lucio Fontana, ma anche di firme meno note al grande pubblico e di grande interesse, come Eliasson e Leotta – commenta il Presidente della Fondazione CRC, Giandomenico Genta –. Il tema della luce, al centro anche di una nuova mostra che inaugureremo a fine novembre, è particolarmente significativo per il periodo storico che stiamo vivendo ed emergerà in maniera potente grazie all’allestimento studiato appositamente per l’ex chiesa di San Francesco”.

Note biografiche

Giacomo Balla
Pittore, scultore e scenografo, Giacomo Balla (Torino 1871 – Roma, 1958) è figlio di un appassionato fotografo dilettante e fin da piccolo ama disegnare e studia violino. Frequenta per alcuni mesi l’Accademia Albertina di Torino ed è inizialmente influenzato dagli artisti divisionisti che frequenta. I suoi primi lavori, incentrati su tematiche sociali quali il lavoro o la vita degli emarginati e degli oppressi, sono occasioni di sperimentazione sugli effetti della luce sia naturale sia artificiale. Nel 1895 si trasferisce a Roma e nel settembre 1900 Balla si reca a Parigi per visitare l’Exposition Universelle. In questi anni Umberto Boccioni, Gino Severini, Mario Sironi e altri giovani si frequentano assiduamente il suo studio e si possono considerare suoi allievi. Intanto Giacomo Balla incomincia a interessarsi al movimento, inizia una serie ricerche sul dinamismo e, nel 1910, è tra i firmatari del “Manifesto dei pittori futuristi” e del “Manifesto tecnico della pittura futurista”. I nuovi interessi stilistici di Balla si concretizzano nei dipinti Bambina che corre sul balcone (1912), Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912) e Le mani del violinista (1912). L’analisi del movimento lo spinge a focalizzare l’attenzione sul moto delle automobili, cercando di conferire la sensazione della velocità del veicolo in corsa attraverso triangoli di luci e ombre, linee curve e linee diagonali che creano una particolare prospettiva. Questa nuova tecnica, che porta un certo interesse fra i critici, dà vita a Profondità dinamiche (1912), Velocità astratta (1913) e Velocità d’automobile (1913). Tra il 1912 e il 1914 Balla è a Düsseldorf per la decorazione di casa Löwenstein. In questo periodo il pittore lavora sulle Compenetrazioni iridescenti, opere nelle quali riduce gli effetti della luce e della velocità all’ermetica purezza delle forme geometriche e opere che costituiscono i primi esempi di arte astratta italiana. Tornato in Italia, nel 1915 insieme a Fortunato Depero redige il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo che estende la poetica futurista a svariati campi della vita, e con lui produce una serie di costruzioni, assolutamente non figurative, o “complessi plastici”, di cartone, lamiera, seta e altri materiali di uso corrente. “Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente…”; i due pittori propongono di reinventare l’ambiente umano soprattutto inserendo l’arte nel mondo della moda, dell’arredo e del teatro. A livello teatrale è veramente innovativa la scenografia che Giacomo Balla realizza nel 1917 per il balletto Feu d’artifice con musica di Igor Stravinskij, in cui la presenza umana viene sostituita dall’alternarsi ritmico delle luci. Nella “Exposition Internationale d’Arts Décoratifs et Industriels Modernes” di Parigi (1925), a cui partecipa insieme a Fortunato Depero ed Enrico Prampolini, i suoi arazzi vengono premiati. Per un breve periodo Giacomo Balla aderisce al secondo futurismo di Filippo Tommaso Marinetti ed è tra i firmatari del manifesto “L’aeropittura. Manifesto futurista” del 1931, inoltre prende parte alla prima mostra di Aeropittura Futurista. L’esposizione è l’ultima partecipazione a mostre futuriste perché ormai l’artista di Torino sta volgendo la propria attenzione alla pittura figurativa. Durante i primi anni Trenta Giacomo Balla abbandona progressivamente il futurismo per tornare a un certo realismo naturalistico, convinto che l’arte pura debba esprimere un realismo assoluto, senza il quale si cadrebbe in forme ornamentali e decorative. Nonostante un breve periodo negli anni Cinquanta in cui le sue opere futuriste furono apprezzate dalla generazione più giovane di pittori astratti, il gruppo “Origine” che allestì una mostra dei suoi dipinti nel 1951, Giacomo Balla rimase un pittore figurativo fino alla morte avvenuta a Roma il 1° marzo 1958.

Lucio Fontana
Lucio Fontana nasce nel 1899 a Rosario di Santa Fe, Argentina, da genitori di origine italiana. Il padre Luigi è scultore e la madre, Lucia Bottino, è un’attrice di teatro. Nel 1905 si trasferisce in Italia, prima a Varese e poi a Milano, dove tra il 1914 e il 1915 frequenta l’Istituto Tecnico Carlo Cattaneo e inizia l’apprendistato nello studio paterno. Nel 1916, con il coinvolgimento dell’Italia nella prima guerra mondiale, parte volontario ma presto rimane ferito e nel 1918 è di nuovo a Milano, dove consegue il diploma di perito edile. Nel 1921 torna a Rosario e lavora con il padre, che si occupa principalmente di scultura cimiteriale; nel 1924 apre un suo studio, vince diversi concorsi pubblici e riceve le prime commissioni importanti. Tornato a Milano, dal 1927 al ’29 frequenta l’Accademia di Brera, dove segue i corsi di Adolfo Wildt. Nel 1930 partecipa alla XVII Biennale di Venezia e tiene la prima personale alla Galleria del Milione a Milano, organizzata da Edoardo Persico, dove espone Uomo nero (1930), in cui la figura umana è ridotta a una sagoma geometrica. Nel 1934 realizza una serie di sculture astratte che espone l’anno successivo ancora al Milione, punto di riferimento per gli astrattisti milanesi. Con Oreste Bogliardi, Virginio Ghiringhelli, Osvaldo Licini, Luigi Veronesi, Fausto Melotti e Mauro Reggiani aderisce nel 1935 al gruppo parigino Abstraction – Création, al quale si aggiungono Atanasio Soldati, Cristoforo De Amicis e Ezio D’Errico. Insieme firmano il Manifesto della Prima Mostra Collettiva di Arte Astratta Italiana in occasione dell’esposizione nello studio torinese di Felice Casorati ed Enrico Paulucci. Inizia a lavorare la ceramica nella manifattura di Tullio Mazzotti ad Albisola. Nel 1936 collabora con Marcello Nizzoli, Giancarlo Palanti ed Edoardo Persico al progetto vincitore del concorso per il Salone d’Onore della VI Triennale di Milano. Dal 1940 al ’47 è di nuovo in Argentina, dove partecipa a numerose esposizioni e riceve diversi riconoscimenti. Insegna presso la Escuela de Artes Plásticas di Rosario e l’Academia de Bellas Artes di Buenos Aires per poi fondare con Jorge Rornero Brest e Jorge Larco la Altamira, Escuela libre de artes plásticas nel 1946. Con alcuni studenti e giovani artisti dell’Accademia redige il Manifiesto Blanco (1946), che tuttavia non firma. Intanto in un gruppo di disegni compare per la prima volta la scritta “Concetto Spaziale”, titolazione che, insieme ad “Attese”, accompagnerà gran parte della sua successiva produzione. Nell’aprile del 1947 torna a Milano, dove firma il Primo manifesto dello Spazialismo con Giorgio Kaisserlian, Beniamino Joppolo e Milena Milani, cui seguono il Secondo manifesto dello Spazialismo (1948), la Proposta di un regolamento (1950), il Manifesto tecnico dello Spazialismo (1951), il Manifesto dell’arte spaziale (1951) e il Manifesto del movimento spaziale per la televisione (1952). Nel 1948 partecipa alla XXIV Biennale di Venezia. L’anno seguente presso la Galleria del Naviglio realizza il suo primo Ambiente Spaziale, in cui una scultura fosforescente è appesa al soffitto dello spazio espositivo illuminato dalla luce di Wood. In questo stesso anno inizia il ciclo dei “Buchi”, costellazioni di fori eseguiti sulla tela con un punteruolo, che presenterà per la prima volta nel 1952 al Naviglio. Estende questa ricerca anche a interventi architettonici, tra cui il soffitto del Padiglione Breda (1953) e quello del Padiglione Sidercomit per la Fiera di Milano (1954). Nel 1949 partecipa alla mostra Twentieth-Century Italian Art al MoMA di New York; l’anno dopo si tiene una sua personale in occasione della XXV Biennale di Venezia. Partecipa al concorso per la V porta del Duomo di Milano, che vincerà nel 1952 ex aequo con Luciano Minguzzi, esponendone i bozzetti alla IX Triennale di Milano (1951) per la quale realizza anche un grande arabesco al neon allestito sullo scalone centrale e un soffitto a luce indiretta all’ingresso. Nel 1952 nascono le prime opere del ciclo “Pietre”, in cui ai buchi si aggiungono frammenti colorati di pasta di vetro; dal 1954 lavora alle serie dei “Gessi” e dei “Barocchi”, e dal ’56 agli “Inchiostri”. Prosegue il lavoro con la ceramica, sulla quale interviene con buchi o graffi. Nel 1958 ha una sala personale alla XXIX Biennale di Venezia. Sul finire dell’anno concepisce i “Tagli”, in cui uno o più tagli netti e regolari scandiscono la superficie della tela, che presenta nel 1959 alla Galleria del Naviglio. Lo stesso anno partecipa a Documenta 2 a Kassel e alla V Biennale di San Paolo. In questi anni lavora anche alle serie “Quanta”, tele poligonali con tagli, “Olii” e “Nature”, sculture in terracotta o bronzo. Nel 1961 produce un neon per Italia ’61 a Torino e tiene la prima personale negli Stati Uniti, presso la Martha Jackson Gallery di New York. È proprio New York a ispirare la serie dei “Metalli”, lamiere specchianti tagliate, graffiate o incise. Al 1963-1964 risalgono i lavori “Fine di Dio”, tele monocrome di forma ovale, talvolta coperte di lustrini, attraversate da buchi e lacerazioni. Nel 1964 inizia la serie dei “Teatrini”, con cornici sagomate di legno laccato, e dal ’67 produce le “Ellissi”, in cui i buchi regolarmente disposti sono eseguiti a macchina. Alla XXXIII Biennale di Venezia nel 1966 collabora con Carlo Scarpa e crea un ambiente ovale labirintico che ospita tele bianche attraversate da un unico taglio, per il quale vince il Premio Comune di Venezia riservato a un pittore italiano. Muore a Comabbio (Varese) il 7 settembre 1968.

Olafur Eliasson
Dalla metà degli anni Novanta, Eliasson ha realizzato numerose e importanti mostre e progetti in tutto il mondo. Nel 2003 ha rappresentato la Danimarca alla 50a Biennale di Venezia, con The blind pavilion. Più tardi nello stesso anno, ha installato The weather project nella Turbine Hall di Tate Modern, a Londra e Take your time: Olafur Eliasson, una mostra organizzata da SFMOMA – San Francisco Museum of Modern Art nel 2007, che ha viaggiato fino al 2010 in vari luoghi, tra cui il MoMA – Museum of Modern Art di New York. Innen Stadt Außen (Inner City Out), al Martin-Gropius-Bau nel 2010, ha coinvolto interventi dell’artista nella città di Berlino e nel museo. Allo stesso modo, nel 2011, Seu corpo da obra ha coinvolto tre istituzioni intorno a San Paolo – SESC Pompeia, SESC Belenzinho e Pinacoteca do Estado de São Paulo, e si è diffusa nella città stessa. Nel 2014, con Riverbed ha riempito un’intera ala del Louisiana Museum of Modern Art in Danimarca con pietre e acqua, emulando un fiume in un paesaggio roccioso; più tardi quell’anno, Contact fu la mostra inaugurale alla Fondation Louis Vuitton, Parigi. Verklighetsmaskiner (Reality machines), al Moderna Museet di Stoccolma nel 2015, è stato l’evento più visitato del museo realizzato da un artista vivente. Nel 2016 Eliasson ha creato una serie di interventi per il palazzo e i giardini di Versailles e ha allestito due mostre su larga scala: Nothingness is not nothing at all, al Long Museum, Shanghai e The Parliament of possibilities, al Leeum, Samsung Museum of Art, Seoul. Green light, un laboratorio artistico, creato in collaborazione con TBA21 (Thyssen- Bornemisza Art Contemporary), offre una risposta alle sfide degli spostamenti di massa e della migrazione. Inizialmente ospitato da TBA21 a Vienna nel 2016, il progetto faceva parte di Viva Arte Viva, la 57a Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, nel 2017. Reality projector è stato aperto alla Marciano Art Foundation, Los Angeles, a marzo 2018, lo stesso mese della sua mostra personale The unspeakable openness of things al Red Brick Art Museum di Pechino. Olafur Eliasson: WASSERfarben ha aperto allo Staatliche Graphische Sammlung nella Pinakothek der Moderne di Monaco nel giugno 2018.

Renato Leotta
Renato Leotta (Torino, 1982) vive e lavora tra Acireale e Torino. Nel 2019 è stato Italian Fellow in Visual Arts presso l’American Academy di Roma. Nel 2020 ha esposto al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea nella mostra Sole e le sue opere sono state selezionate per la mostra collettiva MAXXI Bulgari Prize prevista al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma, mentre recentemente ha presentato la personale Lighea presso la Galleria Fonti, Napoli. Nel 2019 ha tenuto una personale presso Magazzino Italian Art Foundation e Casa Italiana Zerilli-Marimò, New York; nel 2018 Eine Sandsammlung alla Kunst Halle Sankt Gallen, San Gallo, e nel 2016 Aventura alla Galeria Madragoa, Lisbona. Tra le mostre collettive a cui ha preso parte ricordiamo: Garden of Earthly Delights presso il Martin-Gropius-Bau di Berlino, e The Piedmont Pavilion, Combo, Venezia, 2019; Manifesta 12, Palermo e Italy Matriz do Tempo Real, MAC, San Paolo, 2018; Intuition, Palazzo Fortuny, Venezia e Pompei@Madre. Materia Archeologica, Museo Madre, Napoli, 2017; 16a Quadriennale nazionale d’arte di Roma, Palazzo delle Esposizioni, Roma e TERRAE NUBILUS, NAK, Aquisgrana, 2016. Leotta è co-fondatore di CRIPTA747 a Torino.