E sono 3…di Takeawaygallery
La Galleria Howtan Space ed ElectronicArtcafè a cura di Achille Bonito Oliva ed Umberto Scrocca, inaugurano la loro collaborazione presentando l’evento E sono 3…di Takeawaygallery, che festeggia i suoi primi 3 anni di attività.
Comunicato stampa
La Galleria Howtan Space ed ElectronicArtcafè a cura di Achille Bonito Oliva ed Umberto Scrocca, inaugurano la loro collaborazione presentando l'evento E sono 3…di Takeawaygallery, che festeggia i suoi primi 3 anni di attività.
Per l’occasione la Takeawaygallery ha deciso di presentare oltre 250 fotografie formato 10x15, tutte uniche, scattate durante le serate inaugurali di ciascun progetto realizzato: ad essere esposti, quindi, tutti i partecipanti, amici, ed affezionati, parte di un tragitto percorso assieme, da 24x24 ad I Love Music, Stringhe, La Verità è nuda, Paturnio, fino ai più recenti Oh my dog! e Pentamorfosi.
“I motivi di questo gesto – racconta il gallerista Stefano Esposito - sono principalmente due: non solo è un modo per ringraziare ognuno per la collaborazione, per esserci stati vicini ed averci seguito, ma soprattutto vorrei che fosse un pretesto per sensibilizzare tutti affinché le immagini che quotidianamente vengono scattate con le macchine fotografiche digitali, gli i-pad, i cellulari si ricomincino a stampare su carta, perché anche la più banale foto ricordo possa rimanere nel cassetto ed essere riscoperta nel tempo. Continuiamo a creare file e questa non è più fotografia. Oggi mi sento in dovere di dirlo, consigliandolo non solo come gallerista ma soprattutto come fotografo”.
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Fotografia, etimologicamente, significa scrittura della luce. Questo è il suo Senso. All’inizio della sua breve storia, neppure centocinquanta anni, era considerata alla stregua di un atto magico, come accade sempre per le innovazioni tecnologiche. E per un lunghissimo periodo, dagli inizi del novecento, con le prime macchine portatili, fino alla fine del millennio, pur avendo vissuto delle trasformazioni tecniche nel campo dell’uso dell’ottica, era rimasta, sostanzialmente, sempre la stessa; fino a alla fine degli anni ’50. Allora, irruppe sul mercato l’antesignano del digitale, il suo grande antenato: il sistema Polaroid. Ovvero, la fotografia istantanea, simbolo eccelso della nuova bulimia spirituale dell’uomo post-moderno, affascinato sempre di più dalla regressione creativa e spirituale che impone una immediata gratificazione. Veloce, subitanea. Soprattutto, una immediata certificazione dell’immagine La fotografia registrata. L’alta tecnologia attuale ha trasformato chiunque in un fotografo. Ma tutto ciò, in realtà, è un Falso. E’ un prodotto del marketing pubblicitario e della necessità dell’industria che deve immettere nuovi prodotti sul mercato. La “fotografia”, oggi più che mai, recupera la sua aura magica, perché finalmente si regala alla massa un ottimo giocattolo, buono per registrare eventi, accadimenti, fatti da condividere istantaneamente con i propri amici e spinge di nuovo (com’era 50 anni fa) il fotografo verso il recupero dell’artigianato manuale nel voler scrivere la luce. La “magia” della fotografia, infatti, non consiste nel fatto di riuscire a catturare una immagine della realtà e bloccarla su un pezzo di carta o su un visore. Nient’affatto. La sua particolarità unica è esattamente l’opposto. Perché –come tutti i veri fotografi sanno- l’immagine che viene fotografata “nella realtà” esisteva già da prima. La fotografia, infatti, non esiste in quanto accadimento, ma esiste nella mente del fotografo, nella mente di chi guarda. Il fotografo non è un artista che ha una visione e quindi scatta, questa è la propaganda dell’era digitale. Chi fa fotografia custodisce, dentro la propria mente, un’idea. Una sua idea della realtà. Può essere una montagna innevata, un gluteo superbo, una parete squarciata, un abbraccio, un cane che scodinzola. Ma è pre-esistente alla realtà. Il fotografo custodisce questa visione dentro di sé e poi va a caccia nel mondo della realtà. Va a cercare ciò che ha visto prima dentro la propria mente. E se non lo trova, allora lo ricrea in studio. Quando scatta, il fotografo sa sempre che, in quel momento, non sta registrando la realtà, bensì il suo esatto opposto: la realtà sta costruendo per lui/lei il suo mondo immaginario. E lì, il fotografo vede il corridoio della luce che scorre. Ne coglie il sintagma, il binario. Anche se sta fotografando una parte apparentemente bianca, sa già che, una volta stampata, quell’immagine rivelerà degli squarci insospettabili a occhio nudo, degli interstizi, delle linee, dei punti di fuga, che l’occhio della sua mente aveva registrato già da un lunghissimo tempo. Una fotografia non è mai una invenzione. E’ semplicemente una scoperta. O ancora meglio: la prova che la mente è in grado di poter inventare la realtà. Senza una idea interiore, senza una visione preconcetta, senza il sigillo interiore stampato dentro il proprio immaginario inconscio, non esiste fotografia: sono soltanto delle immagini in successione, prive di Senso. Perché non suscitano emozione alcuna. Ancora oggi, di tutte le definizioni date, rimane la più aderente alla sua ineffabile magia quella offerta da Oscar Wilde, che alla fine dell’800, dopo essere uscito dalla galera, si scoprì fotografo: era il frutto della dolorosa elaborazione nella gabbia dove lo avevano rinchiuso. Come ebbe a dire nel suo più celebre aforisma “La vita copia sempre dall’arte, come la fotografia dimostra. Tant’è vero che a Londra abbiamo scoperto la pioggia soltanto dopo averla vista nelle sue prime fotografie. Prima era semplicemente acqua che cadeva giù dal cielo. La fotografia ha scoperto l’esistenza scientifica della pioggia, davvero una scoperta rivoluzionaria”.
Sergio Di Cori Modigliani