E’ tutto troppo pop
Spazio inangolo riparte con una collettiva a cura di Antonio Zimarino. Le opere presenti, dal linguaggio pop, denunciano la decadenza ideologica che l’immaginario nazionalpopolare d’oggi trascina con se.
Comunicato stampa
Si. Indubbiamente caratteri formali e struttura ironica/paradossale collocano stilisticamente questo insieme di lavori all’interno del linguaggio espressivo del “pop”. Nell’ambito artistico “Pop” sta a significare, almeno ab origine - popolare - nel senso che l’arte prendendo coscienza della condizione consumista, sceglieva mezzi, immagini, iconografie e paradossi che appartenevano al linguaggio più generale dell’immaginario popolare e di massa rivelando, a metà degli anni ‘60, con triste leggerezza disillusa e conscia, il declino e la “fine” di un modo di vedere e fare arte, legata alla fine di un modo di concepire la società e le sue strutture relazionali politiche ed economiche.
Quel linguaggio paradossalmente giocoso e autoironico che allora si rivelava, è diventato oggi il “linguaggio” la koiné del società postindustriale che abitiamo: non è più una forma di critica ironica allo status dell’arte ma è esattamente uno status dell’arte, nel senso che l’immaginario, la struttura iconica e concettuale del Pop è esattamente elemento identitario delle strutture relazionali e politiche e di un modo di essere società.
Ciò significa che se oggi un artista usa quel linguaggio, sta usando ciò che oggi siamo: un misto di ironia critica e disillusa, un insieme contraddittorio di realismo e simbolo che dice esattamente la contraddizione di ciò che siamo diventati. Nella cultura sociale contemporanea è tutto troppo Pop: ci si sente come incerti nostalgici di ciò che sono i valori etici, ma troppo cinici per pensare che essi possano funzionare. Siamo lucidamente analitici riguardo le contraddizioni di una società materialista e disillusa ma non sappiamo se possiamo sottrarci per davvero al suo sistema pervasivo e avvolgente, fatto di spettacolarità, transitorietà, illusoria possibilità di altro.
In questo quadro in se stesso paradossale, in cui pur comprendendo i problemi che attraversano il vivere sociale, non sappiamo se abbiamo ancora i mezzi e le possibilità che essi non siano più tali, i lavori di questi artisti, scelgono di approfondire la loro analisi, con la critica, l’ironia e disillusione: riprendono ciascuno con un proprio mezzo (grafica, video, scultura, oggettualità) l’immaginario diffuso da social o da sintesi grafiche filmico/pubblicitarie, evitando di cadere nel limite stesso di questi linguaggi, ovvero, nella banale illustrazione. Ciascuno prende invece una propria posizione chiara verso violenze, stereotipi, apparenze, desideri, comportamenti, compromessi: ogni opera a suo modo affronta un qualche nodo contraddittorio del nostro contesto sociale e valoriale, caratteristico di una società assuefatta al nonsenso e all’incapacità di scegliere poiché confusa e irretita da un immaginario egocentrico, repressivo, autoreferente e immanente. Alessandro Rietti si sofferma a criticare ironicamente la spettacolarizzazione insensata della sessualità, Francesco Di Bernardo, iconizza e raggela l’esibizione del corpo come affermazione di presenza, Carlo Federico, documenta la tensione violenta latente di un sistema politico, sociale, immaginale repressivo generalizzato, Andrea Berardinucci, costruisce un’insensata bussola dadaista fondata su un materialismo “genitale”, Francesco Toppeta, “fotografa” scientificamente il “piacere” perverso e innaturale procuratoci dal “consumo” inconsapevole della merce che ci ha letteralmente penetrato.
Del resto, non si può spiegare e denunciare l’incongruenza del nostro contesto senza usare il suo stesso linguaggio paratattico e simbolico introdotto e sviluppato dal “Pop” che è di fatto, il nostro contesto. La cultura di massa ci fornisce una modalità espressiva fatta di tragico realismo, che non lascia spazio a cose che non siano cose: magari le destruttura, le riveste, le smonta e le rimonta brutalmente in combinazioni disarmoniche; magari gioca con esse divertendosi sarcasticamente, ma non riesce a darci “parole” che non siano relative ad oggetti o ad una oggettualità. Forse è proprio la durezza immediata di questo linguaggio che può riportarci al cuore del problema che è appunto il materialismo spinto e sottovuoto che aleggia continuo nei meccanismi delle nostre relazioni sociali.
Del resto per capirci dobbiamo usare termini comuni e riferirci ad un immaginario comune: il troppo pop è ciò che leggiamo, ciò che vediamo scorrere sulle tv, nei cinema, nell’illusoria libertà virtuale del web. Il troppo pop è la confusione, l’incertezza e l’ambivalenza entro cui tutto viene collocato, il troppo pop siamo noi e la nostra incertezza disillusa che si muove in tutto questo. Per capirsi, per capire questo stato di cose, non si può che usare “il linguaggio” che nasce da questo stato ed è così che i nostri artisti possono farsi capire e vogliono farsi capire, dato che essi vogliono avere a che fare ancora con il reale e si occupano di ciò che socialmente abitano, e non ancora si sono autocondannati all’autoreferenza. Esattamente come il personaggio stravolto nell’opera di Igor Cascella che accenna ad uno sguardo alle stelle, verso qualcosa di “altro” dall’arida materialità autoreferenziale dell’individualismo. Quell’alterità destinata a restare distante dal nostro mondo, se non riusciremo a rimetterci in un equilibrio consapevole tra ciò che realmente siamo e ciò che ci viene detto dobbiamo essere e rappresentare. Se non riusciamo cioè a conservare nella tragica immanenza del quotidiano, il desiderio che le cose non siano banalmente quello che sono diventate e quelle che ci vogliono far credere che siano. Bisogna ancora, sempre, svelare l’aridità che rischia di sopraffarci e ridarci qualche strumento per non essere travolti e farci continuare a pensare che le cose possano essere diverse, a partire da ciò che riusciamo ad identificare e a partire da ciò che posso immaginare.
Andrea Berardinucci
Igor Cascella
Francesco Di Bernardo
Carlo Federico
Alessandro Rietti
Francesco Toppeta