Emilio Leofreddi – Nomadelica
Emilio Leofreddi e il foglio bianco si appartengono da sempre, quantomeno dal primo viaggio adulto dopo l’epoca scolastica, quando l’artista ha intrapreso la propria avventura indiana: due anni in giro nel subcontinente per affinare le coordinate del fatidico passaporto interiore.
Comunicato stampa
TERRITORIO Storie di artisti umbri presenta
FRANCO TROIANI
IM/PERFETTO EQUILIBRIO A cura di Gianluca Marziani
Non esiste antinomia tra astrazione e figurazione… ci sono artisti che lo ribadiscono in silenzio, attraverso i codici di una ricerca metodica, coerente, prolungata nel tempo come un’ombra dinamica del proprio essere. Partirei da qui per raccontare il viaggio artistico di Franco Troiani, da un filo invisibile che connette oltre quarant’anni di produzione visiva. Un filo che legge il mondo nella sua coscienza pittorica, stabilendo uno strategico superamento della dicotomia figurazione/astrazione. Per l’artista spoletino non esiste invenzione nel linguaggio visivo, tutto già appartiene al Pianeta e alla memoria di una continua presenza. Le cose sono disponibili in natura, si tratta solo di intuirne il simbolo, recepire la metafora e plasmarne l’anima pittorica, sempre sulla misura concettuale del singolo progetto. Troiani ribadisce così l’impossibilità di procedere per astrattismi: perché ciò che appare denota una radice concreta, una provenienza che attende lo spostamento, un passaggio metabolico dal piano reale a quello iconografico. Qualsiasi ipotesi figurativa trova un rimando nella natura, una radice nell’arte del passato, un legame con l’esistente nella sua molteplicità semantica. La materia del mondo si trasforma in un viaggio dei sensi, il colore diventa lirico ed emozionale, le geometrie evocano archetipi di necessario riferimento.
La prima retrospettiva su Troiani ha il sapore di un progetto al presente, dove ogni opera partecipa come singola nota sulla scala polifonica dell’installazione globale. Le sale di Palazzo Collicola si trasformano in una sorta di unico grande lavoro che agisce per frammenti temporali, materici e tematici. Ogni pezzo prescelto è per l’artista una battaglia, una sfida morale che si oppone allo scempio della decadenza storica. L’opera crea così una distanza dalla cronaca attraverso la sintesi della sua forma mentale. Per Troiani non esiste citazione ma recupero metabolico, una visuale inclusiva che considera il passato nella sua fluidità al presente, senza sganci epocali, esercitando il dialogo e la partecipazione. L’arte torna a essere una polis evoluta, luogo ideale dello scambio reale, agorà del continuo futuro per intuire le distonie e immaginare nuovi margini di crescita.
La prima sezione della mostra comprende alcune sperimentazioni dei primi anni ’70. Sono pitture dinamiche di matrice futurista, diverse tra loro per approccio tematico, accomunate da una densità drammaturgica, da un tenore notturno, da un furia compressa che ricrea un naturalismo anomalo. Tra le opere giovanili vedrete anche alcuni disegni e bozzetti per piccole pitture e sculture antropomorfe.
La seconda sezione parte nel 1977 e termina nel 1984: ancora con una pittura di matrice futurista ma con tematiche che toccano la religione e il sociale, secondo parametri iconografici che ormai caratterizzano l’approccio di Troiani. E’ anche il periodo in cui l’autore realizza numerose pitture murali in varie parti d’Italia, confermando la sua vocazione per lo spazio collettivo, per un accesso relazionale all’opera e al contesto d’appartenenza. L’opera come geografia di riflessione collettiva.
La terza sezione, che va dal 1985 al 1996, presenta pitture e sculture aniconiche in cui l’artista recupera geometrie ancestrali, codici arcaici, simbologie alchemiche. Un ritorno alla materia e agli elementi naturali, una felice opposizione al mondo virtuale tramite sapienti gestioni estetiche. La sezione comprende anche un nutrito corpus di lavori su carta, materiale che Troiani ha sempre gestito con cura speciale, considerandola un passaggio necessario, una sintesi degli attriti, un mondo autonomo.
La quarta sezione va dal 1997 al 2004: vedremo opere su tavola quasi monocrome ma con evidenti composizioni architettoniche, rarefatte nel loro apparire, condotte verso l’ideale della forma archetipica. E’ la perfetta corrispondenza di astrazione e figurazione, un combaciare che elimina ogni antinomia ed elabora l’ideale iconografico, il punto di fusione tra radice e veggenza.
La quinta sezione mescola linguaggi e temi, inserendo lavori fotografici e altre sorprese. A questa sezione si lega anche l’installazione presso il San Carlo dal titolo “…come Zattera della Medusa”. Nata da disegni e fotografie del terremoto Umbria-Marche 1997, vuole essere una denuncia al sistema politico ma anche una riflessione sulla condizione umana, dalla paura ancestrale al bisogno di equilibrio per una vita migliore…
Franco Troiani nasce a Spoleto, luogo dove vive e lavora.
Ai primi anni Settanta risalgono le personali d’esordio: Terni (Palazzo Comunale), Spoleto, Perugia (Palazzo dei Priori) e Roma (Palazzo Spinola) tracciano le coordinate del suo inizio e indicano le direttrici del suo futuro. L'apertura di uno studio a Spoleto gli permette di vivere, soprattutto nel periodo del Festival, il fermento culturale che animerà la città come crocevia del talento interdisciplinare. Seguono anni in cui il suo lavoro s’ispira alle ambientazioni teatrali, anni in cui esegue pitture murali in varie parti d'Italia. Dal 1985 inizia una nuova linea di ricerca che esplode nel 1986, quando la tragedia di Chernobyl aumenta la sua coscienza esistenziale e ambientale. Sempre nel 1986 crea STUDIOARTE'87 (poi STUDIO A'87), un luogo mentale dove fare arte come atto propositivo, forma di educazione e disciplina associativa. Nel 1988 è artefice e cofondatore (assieme all’architetto Giuliano Macchia, altra figura fondamentale nella cultura spoletina) dell'associazione "Amici del Museo Centro Arte Contemporanea Spoleto", creata per la promozione dei giovani e delle arti in genere. Nel 1988 viene invitato al “14° Internationalen Pleinairs, Fachschule fur Werbung und Gestaltung” di Potsdam, prima apertura agli artisti occidentali nel segno della Glasnost', esperienza significativa anche sotto l'aspetto antropologico e politico, ripetuta nell'agosto 1989 e poi nel 1990. Negli spazi del suo nuovo studio, l’ex chiesa di S. Carlo, o in altri luoghi istituzionali, continua a proporre numerose iniziative connesse all'arte contemporanea. Nel tempo il suo linguaggio diviene più autonomo, sperimenta formule contaminate, si dedica con maggior frequenza all'uso della fotografia e alla progettazione di libri d'artista. Negli anni Novanta realizza in Umbria diverse opere murali (wall drawing): nel 1994 all'Albornoz Palace Hotel a Spoleto, l’anno successivo presso l’Artèhotel a Perugia. Cura nel 1997 la prima uscita dell'itinerario d'arte "Viaggiatori sulla Flaminia", giunto oggi all’ottava edizione. Nel 2002 lavora alla Biennale del libro d'artista "LiberolibrodArtistalibero", progetto che crescerà nel tempo grazie all'organizzazione di Viaindustriae e alla cura di Emanuele De Donno che ha traghettato il progetto fino al traguardo della settima edizione. Tra i lavori più recenti ricordiamo il wall drawing eseguito nel 2004 presso la chiesa di S. Carlo a Spoleto, liberamente ispirato al "Cristo tra le croci" di Lelio Orsi, visionario manierista del '500; infine, nel 2006, le pitture murali nei trentasei box del parcheggio multipiano Spoletosfera, composte su incarico del progettista Giuliano Macchia.
Con la mostra Azioni e Rivelazioni, curata nel 2010 da Gianluca Marziani, una sua opera del 1988 entra nella collezione permanente di Palazzo Collicola Arti Visive. Nel 2011 ha partecipato alla sezione regionale (Padiglione Umbria) della Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. Nel 2012 è stato uno degli artisti selezionati da Marziani per +50, la grande kermesse spoletina dedicata alla scultura contemporanea.
Per l’occasione verrà editato un catalogo a cura di Emanuele De Donno, edito da VIaindustriae.
Un piccolo libro pensato come costruttivo contraddittorio, un percorso d’immagini alternato da testi “contro” l’artista. E’ la conferma di un’attitudine dialettica che spesso manca nei resoconti critici, una sfida intelligente che l’artista considera vitale per il confronto, per l’esercizio del pensiero e la dimensione aperta del progetto.
EMILIO LEOFREDDI NOMADELICA
A cura di Gianluca Marziani
In collaborazione con FONDAZIONE SANTO LICO
Il foglio bianco, destino di ogni visione originaria, geografia d’accoglienza che ospita la permanenza della radice, dell’idea come genesi e fondamenta “abitabili”. Quella cellulosa rettangolare è la madre del fattore artistico, il pianeta generativo in cui l’espressione coglie l’inizio, il prologo determinante, la luce del primo chiarore. Un foglio che è anche decisione autonoma, grammatica dalle frequenze proprie e dai codici endogeni. La carta bianca registra lo spirito dei tempi, le attitudini individuali, i caratteri diffusi. La sua maneggevolezza entra nel cuore dell’idea, raccordando il prima e il dopo nel suo limbo sospeso ed elegante. Un materiale che diviene linguaggio e codice, dividendosi tra la natura “fragile” dell’appunto e il destino “resistente” della pittura.
Emilio Leofreddi e il foglio bianco si appartengono da sempre, quantomeno dal primo viaggio adulto dopo l’epoca scolastica, quando l’artista ha intrapreso la propria avventura indiana: due anni in giro nel subcontinente per affinare le coordinate del fatidico passaporto interiore. Da quel momento possiamo parlare di doppia anima, divisa tra Occidente e India, tra la coscienza elettiva e la geografia inseguita. Una compenetrazione tra due realtà antropologiche, messe in dialogo con il passo sospeso dell’occhio poetico, del vagabondo sensibile che coglie il destino umano e la comune fatica, le tensioni del corpo e le aperture dello spirito.
Lunghi periodi indiani hanno rilasciato energie in modo prolungato, così come la radice occidentale rilascia di continuo le sue alchimie specifiche. Leofreddi, a differenza di altri artisti, non ha mai diviso nettamente l’esperienza orientale da quella europea. Ha sempre incrociato le visuali e amalgamato il rilascio alchemico, lavorando sulla sinestesia del suo immaginario polifonico. Piani, livelli e formule si mescolano fluidamente, senza spigoli iconografici, senza tensioni nodose. Tutto scorre, come direbbe qualcuno. Tutto torna, come direbbe chiunque creda nell’armonia conquistabile.
L’Italia è il luogo di provenienza genetica: Leofreddi non dimentica mai da dove arriva, i suoi codici e segni mnemonici rimangono italiani, figli di una visuale che si definisce negli anni Sessanta, attorno ad autori come Alighiero Boetti, Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli… similmente a loro mantiene lo spirito nomade del segno liberatorio, la fluida morbidezza dell’appunto impressivo, e come loro scruta il paesaggio urbano nei suoi spunti semantici, il cortocircuito tra antico e contemporaneo, le distanze e vicinanze tra nuovo e vecchio mondo. L’India è il luogo di congiunzione culturale: Leofreddi non dimentica le proprie origini ma non limita il piano geografico delle radici in età adulta. La sua patria inseguita plana sul subcontinente indiano, nel Paese in cui la spiritualità definisce l’apparato umano e il gene collettivo. Qui l’artista ha trovato un completamento, che nulla condivide con la ricerca freak di un centro o altre robe da retorica hippie. Completarsi significa aggiungere la parte mancante, il punto di congiunzione tra sguardo e mondo; un’aggiunta che riguarda la personale prospettiva sul mondo, segno di un destino esistenziale, di una condizione umana che Leofreddi si portava già dentro.
L’intero corpus dei disegni si presenta oggi nella sua natura olistica, come una galassia di pianeti tra loro diversi, accomunati da un volume circolare (nel caso dei disegni da un foglio rettangolare) e da una compresenza di elementi chimici (nel caso dei disegni da molteplici spunti figurativi). Li attraversa la scrittura che dichiara autore e titolo: senza però il tono del narcisismo, al contrario con un segno sottile e rapido, quasi dissolto nel deserto del bianco.
Completa la mostra una serie di nuove opere, in linea con le carte appena descritte, realizzate per gli spazi di Palazzo Collicola Arti Visive. In una terza sala, infine, Leofreddi ha selezionato alcuni lavori storici. Si tratta delle tende indiane, ovvero, tecniche miste (stampa fotografica, pittura e disegno) su teloni indiani cuciti a Goa. La scelta della tenda nasce dalla sua struttura materica (canapa ricoperta di cera) e dall’essere un materiale povero, utilizzato dai nomadi locali come abitazione oppure nei cantieri stradali come magazzino per i materiali; la tenda allo stesso tempo è percepita come sinonimo di movimento, rifugio e comunità. Tutti questi caratteri rispecchiano la visione olistica di Leofreddi, il suo approccio a una figurazione meticcia e diaristica, la sua natura nomade e il suo spirito etico.
Emilio Leofreddi è nato nel 1958, vive e lavora a Roma.
Nei primi anni ’90 progetta installazioni con video e performance su temi politici e sociali.
Del 1992 è la sua prima installazione, “Balene”, patrocinata da Greenpeace e finanziata da Mario Schifano. Del 1993 l’opera “Contact” contro la pena di morte, patrocinata da Amnesty International e Nessuno tocchi Caino.
Nel 1999 ha co-fondato a Roma lo studio d’arte collettivo Ice Badile Studio. Sempre nel 1999 espone la sua personale “Human being” al M.O.C.A. di Washington D.C.. Nel 2004 inizia a lavorare sul viaggio come opera d’arte e sul diario di viaggio da realizzare su tappeti tibetani e tende indiane. Prende forma il progetto “Dreams” che lo riporterà, dopo anni, a rivivere in India. Le opere saranno poi esposte in Italia, ad Art Basel Miami (USA) e nel 2007 alla Xa Biennale del Cairo (Egitto), dove riceve il Premio della Critica. Nel 2009 espone al Vittoriano di Roma l’installazione “Il respiro del mondo”, realizzata con le tende indiane cucite a Goa.
Numerose le mostre personali e collettive in Italia e all’estero, tra Inghilterra, Stati Uniti, Germania, India e Cina. Alcune sue opere video hanno partecipato a festival di cinema e rassegne di videoarte. Alcuni suoi lavori fanno parte di collezioni pubbliche e private, sia nazionali che internazionali.
I video “Contact” e “Im – Media” sono stati acquisiti dall’Archivio Video del Palazzo delle Esposizioni di Roma.
LUIGI MANCIOCCO LITURGIA DELLO SGUARDO
A cura di Gianluca Marziani
Conduciamo lo sguardo in una stanza priva di rumori e inquinamento visivo. Su una parete ci attira a distanza un puntino rosso che stilla liquido color sangue, come una piccola ferita nel bianco, al centro di una piccola superficie che mostra la sua felice imperfezione, la macchia dentro l’assoluto, la salvezza del corpo di fronte alla “presunzione” dell’anima. Quell’opera ci osserva come un ciclope della coscienza collettiva, emana la forza esoterica dei moloch interrogativi. Sembra l’attesa dell’eterno che si rinnova nell’umanità ferita, nel destino di una sofferenza condivisa, nella sua attitudine per un futuro anteriore e liberatorio.
Personaggio silenzioso e paziente, legato al percorso lento e al relativo progetto, concentrato sulla capienza concettuale della singola opera. Per Luigi Manciocco il progettare - inteso come viaggio iniziatico - si definisce dentro l’unicum della forma, dentro una struttura compatta e sintetica che racchiude passaggi ed esiti del viaggio artistico. L’icona come un archetipo dal cuore resistente e dal cervello complesso, una sapiente alchimia d’ingredienti ben amalgamati. Un approdo iconografico che possiede l’energia di un’isola vulcanica, di uno spazio concluso che alimenta la propria forza con virtù endogena, tenendo un occhio sul mondo esterno e un altro sul ritmo incessante dell’universo interiore.
Il bianco di Manciocco è simbolo di alto valore immateriale: traccia in apparenza neutra, campitura d’accoglienza privilegiata per qualsiasi densità cromatica, luogo/nonluogo che incarna il valore contrario di ogni pienezza e assuefazione, eccolo dimostrare la sua generosità fagocitante, la capacità di metabolizzare l’esterno nel mare calmo del colore assoluto. Il bianco, in tal senso, diventa padrone dell’immateriale, assume la voce impalpabile del maestro, della guida che non giudica e accoglie qualsiasi differenza. Non era facile, ad esempio, citare Yves Klein per creare un lavoro autonomo che parlasse di valore immateriale, lo stesso valore che piaceva al francese quando vendeva zone di sensibilità pittorica immateriale. EX VOTO di Manciocco parte da una storia vera che legava Klein a Santa Rita, protettrice dei casi disperati e impossibili. Un legame tra spirito e territorio che oggi, a distanza di tempo ma non di spazio, ha preso la forma di un video in tre parti: una con gli occhi di Klein, una con gli occhi della Santa, una con gli occhi di Dino Buzzati. Occhi che non giudicano ma osservano chi sta esercitando lo sguardo. Ridestano i nostri sensi verso una sinestesia che il trittico rappresenta per sintesi e armonia: l’arte visiva di Klein, la scrittura di Buzzati e il misticismo di Santa Rita, tre condizioni che assieme si completano, riportando la memoria ad un ex voto che Klein fece alla Santa, dove pigmenti e oro davano forma al dialogo tra corpo e anima.
Gli occhi che fissano hanno la stessa radice immateriale del bianco. Il loro sguardo diventa un metabolizzatore di forme, similmente al bianco che digerisce gli altri colori dentro il suo oceano fagocitante. Lo sguardo assimila, ingloba e germina in un processo virtuoso di forma e memoria; così il bianco che compie un identico processo metabolico, trasformando la radice del colore in un’esperienza sensibile. Lo sguardo bianco rappresenta bene l’attitudine resistente di Manciocco, la sua levità sospesa ma densa, il saper guardare “oltre” mentre si sta “dentro”. Lo sguardo bianco pedina il lato sospeso della vita, l’apnea della bellezza, i fossili del presente. E’ un ciclope che cerca il senso del margine, il camminamento sul bordo, restando sotto i livelli di guardia, dove il rumore decresce e il suono ritrova la sua natura primigenia.
Luigi Manciocco definisce la sua poetica tra i margini dello sguardo (l’occhio) e della superficie (il bianco): qui dentro, rimanendo integro nel rigore progettuale, elabora strategie in forma di opera unica dal carattere polifonico. I suoi interventi prendono il volume dell’installazione scultorea, del quadro o del video, ogni volta secondo un unicum progettuale, una strategia che concentri il massimo carico energetico dentro il singolo linguaggio. Per l’artista i linguaggi visivi sono strumenti sensibili da calibrare con misurazione sartoriale, devono plasmarsi attorno all’idea restando un’essenza, uno scheletro primario e funzionale. Sarà sempre l’idea a definire la misurazione linguistica, un tema portante che darà ordini di approccio e soluzione al linguaggio.
Al candore apparente del bianco corrispondono messaggi che contengono la discrepanza del rosso violento, del nero abissale, dei marroni tenebrosi, del grigio asfissiante… perché le tematiche di Manciocco, macroscopiche e universali, non accarezzano il mondo reale ma lo affrontano con determinazione zen (concentrazione e calma ma anche la prontezza per assestare il colpo risolutivo), vogliono il conflitto interno, la battaglia ad armi pari sul campo morbido della metafora.
Sul filo che connette l’Artista e l’Antropologo, Luigi Manciocco inizia, alla fine degli anni Ottanta, due ricerche parallele: una sulle scienze antropologiche, l'altra nel campo della sperimentazione con environment e installazioni sulla poetica del bianco. All’interno di un sistema di comunicazione allargata, la sensibilità dell’artista sconfina nelle geografie dello spirito e della materia: la sua è una pittura-oggetto, una “shape on canvases”, sorta di attraversamento nei domini della scultura che ha dato modo a Lidia Reghini di Pontremoli di inserire l'artista nel saggio Primitivi urbani. Antropologia dell’arte presente (Roma, 1998). Negli anni Novanta Manciocco compie diversi viaggi negli Stati Uniti, dove tiene una personale all’Atlantic Gallery dal titolo “Inchoo – To begin” (1990). In seguito partecipa a mostre progettuali tra New York, San Francisco e Ithaca. Accanto a Grazia Chiesa di D’Ars Agency, conosce diversi personaggi dell’arte contemporanea americana: tra questi Margot Poroner Palmer che poi gli affiderà la redazione romana di “Artspeak”. Gli incontri e le interviste sono poi state pubblicate sulla Rivista d'Arte Contemporanea NEXT. Sempre negli anni Novanta collabora e scrive articoli critici sulla rivista D’ARS sotto la direzione di Pierre Restany. Attualmente collabora con la rivista ZETA dell’Editore Campanotto di Udine.
Numerose le mostre personali, le collettive tematiche, gli eventi trasversali, le rassegne e le fiere a cui Manciocco ha partecipato dagli anni Ottanta ad oggi.