Emory Douglas – Freedom is a Constant Struggle
Laveronica Arte Contemporanea, in occasione dei dieci anni di attività, è lieta di presentare la mostra Freedom Is A Constant Struggle di Emory Douglas, un artista che ha legato il suo nome al Black Panther Party, il partito rivoluzionario dei neri d’America, e che ha fatto della militanza per i diritti civili, della lotta per la libertà degli oppressi la sua ragione di vita.
Comunicato stampa
Laveronica Arte Contemporanea, in occasione dei dieci anni di attività, è lieta di presentare la mostra Freedom Is A Constant Struggle di Emory Douglas, un artista che ha legato il suo nome al Black Panther Party, il partito rivoluzionario dei neri d’America, e che ha fatto della militanza per i diritti civili, della lotta per la libertà degli oppressi la sua ragione di vita. Le sue opere hanno ispirato e influenzato l’immaginario iconico e simbolico di molti movimenti di liberazione terzomondisti, tra America Latina, Asia e Africa. In anni più recenti sono divenute un punto di riferimento per la cultura della Street-Art.
Per comprendere a fondo l’essenza di questa arte, occorre ripensare al contesto originario in cui prese forma.
Negli anni Sessanta dietro il gigantismo metallico e abbagliante dei grattacieli, dei ponti di acciaio, degli enormi complessi industriali, delle immense highways, sbandierati dagli USA come simboli di libertà e benessere nella logica della guerra fredda, si celava una società ancora chiusa ai temi dell'integrazione razziale e dell'uguaglianza dei diritti per la popolazione di colore.
Nei quartieri ghetto delle metropoli, dove si concentrava la popolazione nera, montava sempre più la protesta degli afroamericani che chiedevano lavoro, alloggi decenti, accesso all’istruzione e alla sanità, uguali trattamenti nei tribunali a quelli riservati ai bianchi.
Nel 1966 a Oakland, in California, la rabbia montante spezzò le catene del riformismo e della non-violenza predicate da Martin Luther King e si incanalò in un movimento rivoluzionario vicino alle idee di Malcolm X, il Black Panther Party for Self-Defence (poi Black Panther Party). Esso proponeva un’ampia piattaforma rivendicativa da attuare, in ultima analisi, anche con la forza e propugnava l’uso delle armi come deterrente contro gli abusi della polizia. Non a caso il movimento scelse come simbolo un animale nobile e coraggioso, la pantera nera, che rappresenta la forza e la dignità. Le biografie dei fondatori si assomigliano tutte. Erano cresciuti in edifici squallidi e cadenti, in case di legno o mattoni in cui le precipitose scalette di ferro esterne antincendio esprimevano un senso di caducità e di fuga, avevano conosciuto la fame e la miseria, l’alcol o la droga, l’odio per il poliziotto bianco e il carcere. Dietro le sbarre impararono a studiare, lessero i libri di Marcuse e Mao Tse-tung, i classici dell’economia e della filosofia, i codici delle leggi civili e penali. Così, una volta usciti di prigione, presero coscienza della loro forza ideologica e si organizzarono politicamente.
Non fu diverso il caso di Emory Douglas: visse l’infanzia in povertà nei ghetti neri di San Francisco, trascorse alcuni periodi in istituti correzionali per minori, frequentò corsi di grafica al City College di San Francisco e al San Francisco State studiando, finché nel 1967, a 24 anni, entrò nel Black Panther Party. Ne divenne Ministro della Cultura e direttore artistico del The Black Panther, l’organo ufficiale diffuso in centinaia di migliaia di copie con cadenza settimanale dal 1967 al 1976 e vi assunse sempre più un ruolo di primo piano, man mano che la repressione e la violenza reazionaria decimavano gli altri leader. Ebbe il merito di tradurre nelle illustrazioni di copertina, nelle vignette, nei fumetti gli ideali rivoluzionari del partito, sintetizzando in rappresentazioni grafiche dirette e immediate – nella comunità nera vi era un alto tasso di analfabetismo - gli articoli d’analisi politica ospitati all’interno del settimanale.
Le illustrazioni vertevano non soltanto su temi specificamente razziali, ma più in generale sull’ empowerment, sulla lotta alla povertà, le discriminazioni, l’imperialismo, le politiche di immigrazione, la libertà per i prigionieri politici, migliori condizioni di lavoro nelle “prigioni” industriali, l’organizzazione collettiva di colazioni gratuite, l’assistenza sanitaria e le scuole popolari.
Immagini di poliziotti raffigurati come porci, politici e giudici come sorci, donne nere con un fucile in spalla e un bimbo in braccio, giovani armati e minacciosi fasciati dalla tipica divisa di pelle nera con baschi delle Black Panther, mitra puntati e cartucciere a vista, figure sullo sfondo del sole nascente socialcomunista, avevano come obiettivi quelli di smitizzare il potere dell’oppressore e costruire per contro una mitologia del movimento e dei militanti, attraverso un atteggiamento di aperta sfida all’establishment che incitasse il popolo nero all’orgoglio, alla lotta e alla resistenza. I militanti tappezzavano con i suoi manifesti muri, recinzioni, cabine telefoniche, autobus, stazioni di servizio, lavanderie automatiche, vetrine di groceries ed empori nei ghetti, influenzando migliaia di altri giovani neri. L’arte di Emory Douglas è sopravvissuta al Black Panther Party scioltosi nel 1982 e oggi rappresenta un corpus di
migliaia di immagini, poster, fumetti, collage e fotomontaggi, che nell’immaginario collettivo contemporaneo rappresenta una delle più potenti interpretazioni visive della lotta.
L’opera di Emory esula dal convenzionale sistema dell’arte, dove artisti-produttori di opere create liberamente e intenzionalmente per questo scopo si rivolgono a intermediari (gallerie, mercanti d’arte, piattaforme) ai quali spetta il compito di collocarle attraverso il circuito espositivo presso collezionisti e musei. Ogni artista rivendica, in modo più o meno esplicito, la propria individualità e originalità creatrice e ambisce a consegnare la sua opera all'eternità della memoria culturale.
Nel caso di Emory, invece, ci troviamo dinanzi a opere nate con uno scopo effimero e circoscritto, fortemente condizionate dai tempi ristretti del giornale, dai limitati mezzi tecnologici e dalle scarse possibilità economiche, destinate alla circolazione di massa (giornali, stampe ciclostilate, volantini, manifesti semi-clandestini), dove la funzione artistica era assolutamente marginale. L’autore ha più volte ribadito che esse sono un’opera collettiva, un patrimonio della comunità nera. La quale, del resto, ne è la sorgente d’ispirazione. I disegni originali sono andati perduti né è stato ed è importante per l’artista la loro archiviazione e conservazione. L’autore conserva soltanto alcuni file, che utilizza e rielabora al computer. Tuttavia, la forza del messaggio, la sua adattabilità a tutti i contesti geopolitici dove si leva vibrante la protesta contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nonché la grande qualità estetica dei suoi lavori ha consentito alle opere di Douglas di entrare nel novero di ciò che oggi i critici considerano arte.
Negli scambi di e-mail che hanno preceduto l’organizzazione della mostra, avevamo proposto a Emory di intitolarla Where is Freedom? Ci sembrava importante porre quella domanda, tanto più che oggi molte conquiste del passato sono rimesse in discussione. Puntuale e rivelatrice è arrivata la sua risposta: Freedom is a Constant Struggle. Ed è questo il titolo che lui ha voluto dare alla mostra. Come s'addice a un’arte collettiva, Emory ci ha chiesto di riunire una comunità di artisti locali per contribuire alla realizzazione in galleria di alcuni suoi murales . Saranno presenti inoltre posters, video e una serie di riviste originali delle Black Panther Party.
La mostra prevede, inoltre, una serie di eventi collaterali – l’organizzazione collettiva di colazioni gratuite in collaborazione con il Centro diurno per minori “Maria SS. del Rosario” di Scicli, una conferenza ed una festa finale– che avranno per protagonista Emory Douglas, nostro ospite speciale, verso il quale ci sentiamo legati da una particolare affinità e una profonda ammirazione.
Freedom Is A Constant Struggle
To celebrate its tenth anniversary, Laveronica Arte Contemporanea is delighted to present the exhibition Freedom Is A Constant Struggle by Emory Douglas, an artist who has tied his name to the Black Panther Party, the revolutionary black nationalist party in the United States, and who made militancy for civil rights and the battle to free the oppressed its raison d’être. His works have inspired and influenced the iconic and symbolic imagination of many third-world liberation movements in Latin America, Asia and Africa. More recently, they have become a benchmark for the street-art culture.
To fully understand the essence of his art, we must reconsider the original context in which it took form. In the sixties, the metallic and dazzling gigantism of skyscrapers, steel bridges, enormous industrial complexes and immense highways, flaunted by the United States as symbols of freedom and well-being during the Cold War, concealed a society that was still closed to racial integration and equal rights for black people.
In the ghettoes of American metropolises, where the black population was concentrated, there were growing protests among African Americans who demanded work, decent homes, access to education and health, and the same treatment in courts as whites.
In Oakland, California, in 1966 seething anger broke the chains of reform and non-violence preached by Martin Luther King and was funnelled into a revolutionary movement closer to the ideas of Malcolm X, the Black Panther Party for Self-Defense (later the Black Panther Party). It proposed a broad platform of demands to be implemented in the final analysis also with force, and it advocated the use of weapons as a deterrent against abuse by the police. It is no accident that the movement chose a noble and courageous animal – the black panther – as its symbol, as it represents strength and dignity. The biographies of the party founders are quite similar. They grew up in dingy, ramshackle buildings, houses made of wood or brick where steep metal fire escapes expressed a sense of transience and flight; they had known hunger and poverty, drugs and alcohol, and a hatred for white policemen and prisons. Behind bars, they learned to study and read the books of Marcuse and Mao Zedong, the classics of economics and philosophy, the codes of civil and criminal law. Once they got out of prison, they became aware of their ideological power and became organized politically.
Emory Douglas’s case was the same: he grew up in poverty in the black slums of San Francisco, spent time in juvenile detention centres, and attended graphics courses at City College of San Francisco and San Francisco State, until he joined the Black Panther Party in 1967 at the age of twenty-four. He became the party’s Minister of Culture and art director of The Black Panther, the party’s official newspaper, a weekly with a circulation of thousands of copies between 1967 and 1976, and he gradually took on a leading role as repression and reactionary violence decimated the other leaders. He can be credited with translating the party’s revolutionary ideals into cover illustrations and cartoons, summing up the articles of political analysis published in the weekly as direct and immediate graphic representations for a black community with a high illiteracy rate.
The illustrations hinged not only on specifically racial topics, but more generally on the concept of empowerment, the fight against poverty, discrimination, imperialism, immigration policy, freedom for political prisoners, better working conditions in industrial “prisons”, the collective organization of free lunches, health care and schools for the lower classes.
The aim of images of policemen as pigs, politicians and judges as rats, black women with rifles slung over their shoulders and carrying babies, threatening-looking armed young people in the typical black leather uniform and berets of the Black Panthers, with machine guns and cartridge belts, and figures against the background of the socialist-communist rising sun was to debunk the power of the oppressor and instead build a mythology of the movement and its militants by openly challenging the establishment, with an attitude that spurred the black population to take pride, fight and pose resistance. The militants used his poster to plaster walls, fences, phone
booths, buses, service stations, laundromats, and the windows of grocery stores and shops in the ghettoes, influencing thousands of other young blacks. Douglas’s art endured even after the Black Panther Party disbanded in 1982, and today it represents a corpus of thousands of images, posters, comics, collages and photomontages, which in the contemporary collective imagination forms one of the most powerful visual interpretations of the struggle. His work lies outside the conventional art system, in which artists/producers of works created freely and specifically for this aim target intermediaries (galleries, art merchants, platforms), which are responsible for positioning them through the exhibition circuit of collectors and museums. Both explicitly and indirectly, each artist claims his or her individuality and creative originality, and strives to deliver these works to the eternity of cultural memory.
In Douglas’s case, however, we are looking at works that originated with an ephemeral and circumscribed aim, powerfully conditioned by the short-lived timing of the weekly, limited technological means and poor financial resources, destined for mass circulation (newspapers, duplicated prints, flyers, semi-clandestine posters) in which the artistic function was wholly marginal. Time and again, the artist has emphasized that they are a collective work, the legacy of the black community, which was ultimately the source of inspiration. The original drawings have been lost, and it was unimportant to the artist to file and preserve them. He has kept only a few files, which he uses and reprocesses on his computer. Nevertheless, the power of his message, its adaptability to all geopolitical contexts in which protests emerge against the exploitation of man against man, and the great aesthetic quality of Douglas’s works have allowed them to become part of what critics now consider art.
In the email correspondence that preceded the organization of the exhibition, we suggested that Douglas entitle it Where Is Freedom? We felt it was important to ask that question, especially because now many conquests of the past have been called into question again. His answer was immediate and revealing. “Freedom Is a Constant Struggle”: this is the title he wanted for the exhibition. As is the case with collective art, Douglas asked us to bring together a community of local artists to contribute to the execution of some of his murals at the gallery. There will also be posters, videos and a series of original magazines of the Black Panther Party. The exhibition will also include a series of side events – the collective organization of free lunches in collaboration with the Maria SS. del Rosario Day Centre for Juveniles in Scicli, a conference and a closing celebration that will feature Emory Douglas, our special guest, to whom we feel strongly tied by a special sense of kinship and profound admiration.