Et un’oseliera et non vi è
et un’oseliera et non vi è è la terza mostra del ciclo estivo di Dolomiti Contemporanee. A Casso, centro permanente e campo base, si trova la Residenza principale: da lì si organizzano tutte le altre attività, da lì gli artisti partono, ogni giorno, ad esplorare i siti dolomitici nei quali si realizzano le altre mostre.
Comunicato stampa
et un'oseliera et non vi è è la terza mostra del ciclo estivo di Dolomiti Contemporanee. A Casso, centro permanente e campo base, si trova la Residenza principale: da lì si organizzano tutte le altre attività, da lì gli artisti partono, ogni giorno, ad esplorare i siti dolomitici nei quali si realizzano le altre mostre. Il Castello di Andraz è una delle location forti del 2013, una delle “case temporanee” di questo laboratorio ambientale, che continuamente si sposta e sperimenta. Il Castello è una rocca spettacolare, la cui condizione di rudere è quanto mai adatta ad ospitare un progetto espositivo d'arte contemporanea. Gli artisti vi innescano le proprie opere, sovrascrivendole, creando dialoghi e cesure con la storia di questo luogo potente, finalmente riaperto, dopo un restauro durato 27 anni. Un luogo chiuso che si apre, ecco la prima affinità con DC. Un luogo evocativo, nel quale l'immaginazione accelera, e che l'arte sa accendere, attraverso una riflessione critica non stereotipa, com'è nel concept generale di DC2013. Anche in questo caso, come per Casso, Cortina, Brigata Alpina Cadore, la mostra si è costruita in parte attraverso una Residenza in loco. L'arte è scandaglio, e un metodo per intendere la cultura e la vita di cose e luoghi. Nel corso dell'inaugurazione della mostra, si svolgeranno due performance multimediali.
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il Castello di Andraz/Schloss Buchenstein è una pietra nella foresta, masso erratico, spinto e lasciato dov’è, tra boschi e rivi e cime, da una lingua di ghiaccio che venne; sopra al trovante, roccioso, gli uomini hanno elevato ancora, per traguardare l’orizzonte; ora, dalla rocca cava, si traguarda il cielo; un rudere aeronautico, che si apre, dopo un restauro durato 27 anni; i sassi legati alla pietra; lacerti di solai; la sezione cava, proiezione verticale dello spazio, invaso dalla luce che cade; la trasparenza della copertura in vetro e ferro, l’aria che scorre veloce e fredda da fuori a dentro le mura e quest’inserzione d’artifizio, che è la cosa più interessante, l’uomo incarnito nel sasso, non la rovina disabitata, la rovina saldata al cielo dalla membrana tecnologica, l’oggi dentro a quell’ieri, non un castello in stile, col cappello alpino e le zimmer, ma una postazione, che ora diviene un nido critico: nel 1595 il capitano della rocca lamentava l’assenza di una voliera; eccola qui, la voliera, pronta la schiusa, la gabbia aperta, attraversata da queste nuove forme-azioni, da cui si guarda a questo spazio, all’ambiente, alla storia ed al genius loci, e la macchina si anima, nuove presenze, e la sezione si attiva, la rovina parla, si muove, descrive e muove.