Ettore Fico – Paradisi ritrovati
Maurizio Nobile Fine Art, rappresentante in Europa dell’opera di Ettore Fico, e il MEF di Torino, presentano “Paradisi ritrovati” a cura di Andrea Busto, monografica dedicata al grande Artista,il cui nucleo centrale affronterà letematiche del giardino e della natura espressi in un excursus temporale iniziale tra figurazione e realismo fino a stilemi informali e astratti nelle ultime opere.
Comunicato stampa
Maurizio Nobile Fine Art, rappresentante in Europa dell’opera di Ettore Fico, e il MEF di Torino, presentano “Paradisi ritrovati” a cura di Andrea Busto, monografica dedicata al grande Artista, il cui nucleo centrale affronterà le tematiche del giardino e della natura espressi in un excursus temporale iniziale tra figurazione e realismo fino a stilemi informali e astratti nelle ultime opere.
Fin dagli esordi l’opera di Ettore Fico (Piatto Biellese, 1917 – Torino 2004) si concentra sulla registrazione della realtà determinata dagli affetti famigliari e dal paesaggio naturale che circonda le vallate biellesi limitrofe alla sua casa natale a Piatto.
La madre, i fratelli, il giardino di casa e le piante officinali e decorative sono i suoi soggetti privilegiati.
Le piccole nature morte iniziali così come i dipinti ispirati al giardino di casa, una sorta di sublime “hortus clausus”, vengono trasposti su piccole tele e piccole tavole dal sapore post-impressionista. La freschezza della realizzazione e il colorismo acceso e squillante rendono queste opere giovanili degne di essere notate e inducono la famiglia a fargli intraprendere la carriera di pittore.
Arrivato a Torino, subito si inserisce a pieno titolo fra gli artisti giovani dell’epoca e lì intraprende un percorso mai interrotto in vita, se non per il periodo della Seconda Guerra Mondiale dove, però, in una tenda da campo, continua la sua ricerca immortalando in tele e disegni i commilitoni del suo reggimento distaccato in Africa del nord.
La sua carriera si svolge lungo tutto il Novecento e la sua opera resta in bilico fra astrazione e realtà, come nelle opere di Spazzapan, Balla, Severini, Masson o Picasso.
Egli non tradisce mai la sua vena poetica, l’estetica dell’armonia, della composizione classica che in tutti gli italiani alberga ed è preminente rispetto alle avanguardie più concettuali.
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta realizza alcuni dipinti di piccole dimensioni in cui rileva la luce e le forme naturali. I giardini sospesi in un silenzio privo della presenza umana, si fanno ammirare come in un’estasi immobile nella calura pomeridiana estiva (Giardino di Ines, 1950). La sua ricerca si svolge in quegli anni verso problematiche meno regionali e più internazionali, la Metafisica e Novecento non sono più predominati, il Dopoguerra apre le porte all’informazione, i bollettini di guerra lasciano il posto alle riviste illustrate e i primi viaggi verso la Francia e a Parigi, aprono le porte a nuove estetiche e a nuove scuole.
Le sue opere subiscono il fascino del rinnovamento in campo figurativo e opere pastose, fatte di campiture pressoché monocrome, iniziano a prendere forma nel suo atelier (Paesaggio nel bosco, 1956). In bilico fra estetica formale e avanguardia, senza mai rinunciare all’idea di riconoscibile, trasportano il suo mondo in un minimalismo ludico e gioioso, alberi come capigliature e sentieri terrosi come lava strisciante, appaiono improvvisamente nelle opere e minuscole apparizioni albergano qua e là sulle tele.
I fiori recisi da queste aiuole e messi in vasi risultano di conseguenza geometrici e costruiti con gli stessi stilemi della materia dei paesaggi, il loro dissolversi sulla tela e il loro raggrumarsi è un inno all’imperfezione e alla volontà di cambiamento evolutivo che l’artista non abbandonerà mai nella sua lunga vita (Natura morta, 1956).
Anche nei disegni, di grande maestria segnica, Ettore Fico immette quel senso di disequilibrio formale in cui tutto è riconoscibile e nulla è esattamente ricostruito. La china segna e dilava il foglio allo stesso tempo e la gestualità contratta dell’artista è una danza vitalistica che possiamo ripercorre come un filo di Arianna nelle composizioni di quel periodo (Vegetazione, 1963).
Quando invece è la tempera colorata lo strumento primo della tecnica utilizzata, allora un’esplosione cromatica e segnica invade tutta la composizione. Una sorta di fuoco d’artificio si sublima e di fissa sul foglio in una miriade di infinite sfumature di azzurri e di verdi, per essere rinvigorite da tocchi accesi di rosso e di bruni tonali, cupi e profondi (Vegetazione, 1965). Ed è verso la fine degli anni Sessanta che, in un contesto pop vicino a Hockney e Sutherland, le opere riprendono una forza e una forma in bilico fra geometria e naturalezza. Vaso di fiori (1968) e Fiori (1969) ne sono testimonianza. La superficie si verticalizza in una volontà bidimensionale di matrice pop, le forme e le campiture ritagliate in monocromie separano gli spazi ritagliandoli, i volumi non hanno ombre e gli oggetti sono collage matissiani, dove però Fico non rinuncia alle cromie preziose: i blu sono smaltati e pennellati da infiniti tocchi di sfumature, i rossi sferzano la tela, le foglie diventano unghie e uncinano la composizione fino ai bruni terrosi che riequilibrano il tutto in una serenità tranquilla e atemporale.
Verso la metà degli anni Settanta Ettore Fico ribadisce prepotentemente le tematiche del giardino e della natura espressi in modo informale e semi-realistico. Lo spazio, tutto intriso di dettagli descrittivi, si compone in sinfonie monocrome declinate sulle tonalità del verde (quando è descritto il prato del giardino), del blu (quando è l'acqua la protagonista dell'opera), del bruno (quando sono le rocce di montagna a essere il soggetto del quadro). La pittura di Fico pare scomporsi nuovamente e frammentarsi in tocchi minuti e pennellate brevi e minuscole. La natura sembra riappropriarsi di tutta la sua attenzione restando l'unico soggetto di questi anni, e invade completamente lo spazio pittorico dilatandolo spesso in composizioni di grande formato (Glicine, 1975-80, Giardino, 1975-80).
Le tempere ancora una volta sembrano risolvere meglio le problematiche dell'artista per rapidità di esecuzione e per semplicità di archiviazione.
Le opere accennano a descrizioni fulminee, i colori stesi a tocchi definiti per le gouaches, si sfumano invece per le grandi composizioni a olio. Il soggetto principale resta la natura nelle sue espressioni legate alla ciclicità stagionale. Le grandi fioriture di glicini e di mimose in primavera (Glicine, 1985), di papaveri e salvia splendens d'estate e l'arrossarsi della vite vergine in autunno (Vite vergine, 1995) sono i soggetti che ritornano ciclicamente nella produzione degli ultimi vent'anni del secolo scorso in cui, una continua ricerca stilistica sembra sottintendere un desiderio volto alla ricerca nuovamente astratta.
In molti quadri di questo lungo periodo la scomparsa del cielo verticalizza definitivamente la composizione dando un risultato caleidoscopico eppur riconoscibile. Il colore verde, declinato in tutte le possibili sfumature, si comporta come un legante per le altre gamme di colori, la resa pittorica dell'erba si confonde con quella delle fronde che lambiscono i prati, al loro interno sembra pulsare la vita e con essa la materia utilizzata per la sua resa pittorica.
Le opere paiono tavolozze iridescenti in cui un prisma di cristallo ha riversato le sue innumerevoli sfumature di colore (Il grande giardino, 1997, Giardino n° 8, 1998, Giardino 2002).
L'inverno invece sembra assorbirlo in tematiche domestiche e intime, meglio eseguibili in studio, a Torino e Castiglione.
Il giro di boa dell'anno 2000 si presenta per Ettore Fico come una nuova sfida nella continua ricerca formale. Si sente, nelle opere conclusive della sua lunga carriera, una vitalità che non corrisponde all'età. Sembra una seconda giovinezza quella che lo porta a realizzare le opere degli ultimi quattro anni di vita in cui il tema preferito resta quello naturale.
In particolar modo le grandi tempere del 2003 (Giardino n° 1, 2003) appaiono come cartoni preparatori per arazzi rinascimentali, assurgono a suo testamento spirituale e invogliano le nuove generazioni di “giovani pittori” a non ingabbiarsi in schemi preconcetti e a lasciarsi trasportare dall'intuizione e dalla sensualità.