Fantasie Fluttuanti

Informazioni Evento

Luogo
TORRIONE PASSARI
Via Sant'orsola 7, Molfetta, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

tutti i giorni ore: 11.00/13.00 – 18.00/20.00

Vernissage
29/09/2012

ore 19

Artisti
Rà Di Martino, Bjørn Melhus, Marius Engh, Olaf Metzel, Thomas Zipp
Curatori
Giacomo Zaza
Generi
arte contemporanea, collettiva

La mostra Fantasie Fluttuanti nel Torrione Passari di Molfetta (Bari), si pone come ultima tappa di un progetto di attenta analisi dell’arte contemporanea.

Comunicato stampa

La mostra Fantasie Fluttuanti nel Torrione Passari di Molfetta (Bari), si pone come ultima tappa di un progetto di attenta analisi dell’arte contemporanea.

Il progetto è pensato in quattro tappe, una per anno, dal 2009 al 2012, che intendono guardare al sincretismo di attitudini che attraversano l’arte visiva, vengono spinte a percorrere il mondo al di là dei confini estetici e degli standard stilistici. Le quattro mostre evidenziano la connotazione cangiante delle ricerche multimediali e “intermediali”, inoltre evidenziano l’impiego della tecnologia per nuove pratiche al confine con la realtà. Gli artisti invitati nel 2011 sono stati Gianfranco Baruchello, Olga Chernysheva, Wolfgang Plöger, Grazia Toderi. Mentre nel 2012 il Torrione Passari ospita una mostra dedicata alla frontiera delle pratiche artistiche fluttuanti con artisti quali: Rä di Martino, Marius Engh, Bjørn Melhus, Olaf Metzel, Thomas Zipp.

Tale progetto focalizza un tipo di fantasia che attraversa una “scena” polifonica del reale e del vissuto, quanto dell’utopico e del sognato, una fantasia contemporanea che, a detta di Adorno, potrebbe incanalare nel suo processo il lavoro, la coscienza e il linguaggio.

Il Torrione Passari era una architattura difensiva edificata nel quattrocento per difendere la città di Molfetta dalle invasioni dei “mori”. La sua posizione nel mare, posta in avanti rispetto alla cinta urbana, a contatto con le correnti marine e in relazione con l’affaccio dell’Altro, appare congeniale alla ricognizione di un’arte “situazionale”, sempre in prospettiva.

Le prime mostre realizzate in questo spazio - dalle installazioni di Kounellis (2003) e gli interventi di Gilberto Zorio (2004), alle opere di Daniel Spoerri (2004) e di Joseph Kosuth (2005) - hanno rappresentato di un’importante evento visivo/cognitivo che ha amplificato l’orizzonte della scena culturale, territoriale e non. Dal 2009 le mostre collettive hanno segnato un cambiamento di analisi, passando dal singolo artista ad un evento estetico polifonico, continuamente dialettico rispetto al tempo e allo spazio, e autoriflessivo rispetto allo sguardo del fruitore. Ad esempio sono stati creati e presentati lavori di H.H. Lim, Mona Hatoum, Globe (2007), di Rui Chafes, La vostra anima è un campo di battaglia (2009) - una imponente scultura in ferro dalle sembianze zoomorfe alta più di tre metri - una installazione “sinestetica” di Carsten Nicolai, incentrata sul suono; oppure un’opera ambientale di Kader Attia, dal titolo Kaaba, realizzata con 100kg di Cous Cous. La mostra PostDimensione (2010) ha ribadito un’arte relazionata ad entità contingenti, utopistiche, ideologiche, paradossali. Ha mostrato attitudini che insistono sulla complessità del mondo: dagli approcci alla nuova tecnologia (Loher), o incursioni nell’apparato collettivo della comunicazione mediale (Toche, Yilin), a pratiche eversive (Oleg Kulik), e strategie comunicative (Yoko Ono).

La frammentazione e la riproposizione di noti personaggi, argomenti mediatici e strategie comunicazionali veicolano in Bjørn Melhus nuove interpretazioni e codici visivi.

Sulla scia di Nam June Paik e Bruce Nauman, Melhus si sofferma sui lati assurdi del medium cinematografico e televisivo. Conosce bene la lezione impartita da Neil Postman secondo la quale i mass media influiscono sulle nostre forme d'organizzazione sociale, sui nostri abiti mentali, sulle nostre concezioni politiche. Riflette intorno agli interrogativi aperti da McLuhan sulle conseguenze sociali e culturali della nuova tecnologia della comunicazione. I nuovi media creano un ambiente e cambiano il modo di pensare e di vivere a beneficio dello show-business e dell’intrattenimento.

L’immaginario fluttuante di Melhus riserva una sottile ironia e affronta i confini labili della realtà, tra divertimento, sogno, dramma e consumazione passiva delle informazioni. Melhus favoleggia motivi tratti dal repertorio cinematografico, utilizza colonne sonore o voci di celebri star. Attraversa tutti i ruoli, persino il ruolo di un puffo in Happy Rebirth, 2004: una creatura blu simile ad un folletto augura con voce infantile, su un sottofondo di fischi e voci stridule, una “felice rinascita”.

L’interesse di Melhus ruota intorno all’identità personale e collettiva, alla nostra origine - da dove veniamo e dove andiamo - al confine tra sé e il mondo dei media, al doppio, all’ambivalenza tra maschile e femminile. Il video The castle, 2007, si presenta come un trailer dove si amalgamano riflessioni a partire dal significato di “dimora” che può assumere il castello. Una sequenza di parole amplifica la trama di relazioni con significati e norme etico-culturali.

L’uso di ritagli di giornali ha inizio nel percorso di Olaf Metzel verso la fine degli anni ‘80, ad esempio per le opere Il balletto della crisi, 1988, e Il messaggero, 1989. Pagine di giornali, dal quotidiano alla rivista, con argomenti riferiti a cronaca, cultura e politica, vengono recuperate e scelte per creare delle opere in alluminio che riproducono su grande scala alcune immagini “accartocciate”. Ritratti, testi o ritagli di giornale appaiono in rilievo grazie all’impiego di lastre di alluminio sulle quali sono impressi su entrambi i lati. I due grandi lavori Gaddafi e Pasolini, 2011, presentati nel Torrione Passari di Molfetta, sono lastre deformate, incurvate e piegate, da sembrare degli enormi giornali “da gettare”. Queste opere riservano allusioni politiche e sociali, misteri irrisolti (Pasolini) e vite controverse (Gheddafi), dati reali e spunti immaginari.

Metzel chiama in causa i “media” tradizionali, il loro flusso di immagini e la loro caducità, il loro bagaglio di argomenti riferito alla vita di tutti i giorni. Raduna le tracce scritte e i documenti visivi transitori che passano all’attenzione del lettore e spariscono in fretta per essere cestinati. Trattiene la “traccia”, quasi per sospenderla prima dell’ultima lettura e della “perdita” dell’argomento. I contenuti delle opere ci tengono impegnati più della semplice durata di lettura del giornale: le pagine corrugate e rattrappite esistono e resistono come rilievi imperanti.

Ad ancora Metzel costringe l’osservatore a riflettere sull’immagine e sulla sua storia. Restposten, 1990, riproduce in cemento lo stemma della DDR (Deutsche Demokratische Republik – Repubblica Democratica Tedesca), lo stato socialista della Germania Est esistito dal 1949 al 1990, definito un “progetto politico operaio”. Qui il martello (simbolo degli operai) e il compasso (simbolo degli intellettuali) circondati da due spighe (simbolo dei contadini) si attestano quali reperti di una realtà ideologica “estinta” ormai obliata.

Marius Engh si appropria del mondo circostante, produce dei cloni e conquista nuovi punti di vista intorno alle “cose” che appartengono al vissuto. Attraverso la ri-creazione del reale Engh indaga lo spirito e la storia che gli oggetti portano in se e prova ad allontanarli dal loro contesto iniziale per esprimere un potenziale inespresso. L’oggetto quotidiano transitando in nuove circostanze produce un diverso significato, spostandosi da una valenza storica ad una valenza formale/poetica. Tale processo spinge al limite l’approccio con la realtà interpretabile e riconoscibile, arrivando a sperimentare ciò che non è visibile e dicibile.

Marius Engh progetta un nucleo di opere in dialogo con il Torrione Passari in termini di storia, architettura e uso dello spazio come centro d'arte. Ad esempio il lavoro Moon prende le mosse da una poesia Zen che si chiama “No Water, No Moon”, in cui si recita: “Non più acqua nel secchio! Non più luna nell'acqua!”. Un contenitore circolare in alluminio dipinto di nero e riempito di acqua fino all’orlo, in riferimento alla forma della torre e all’uso iniziale di cisterna di acqua piovana nel mare. La superficie d’acqua rifletterà la luce, quella artificiale e forse quella notturna della luna. Invece l’opera Napoleon Bonaparte, una sequenza di cinque fotografie, fa riferimento alla veduta notturna del Pont de Pierre di Bordeaux, il primo ponte a collegare la riva destra a quella sinistra del fiume Garonne. Il ponte è stato voluto da Napoleone nel 1819, lungo 500 metri, articolato su 17 archi che corrispondono al numero delle lettere del nome Napoleon Bonaparte, simbolo del suo dominio e del suo “impero”. Le immagini fotografiche mostrano una infrastruttura come segno indelebile del potere.

Thomas Zipp assembla nel suo lavoro differenti elementi - dipinti, sculture, stampe, disegni, oggetti - per creare un ambiente globale che integra gli spazi della sede espositiva. L’opera di Zipp è una “oscura fantasmagoria” nutrita da riferimenti alla storia, alla scienza e alla religione, alla politica e alla società, all’arte e alla filosofia. Viaggia su rotte divergenti e antagonismi di senso. Si addentra in ambiti tematici antitetici: bene e male, verità e menzogna, norma e deviazione, corpo e mente, ossessione ed estasi, beatitudine e sessualità, esperienze limite.

Operando all’interno di poli opposti, Zipp svolge una sorta di “esplorazione del sé” che trova il suo massimo risultato a Kassel nel 2010 presso la Kunsthalle Fridericianum trasformata in un ospedale psichiatrico, “Mens sana in corpore sano” (citazione del poeta latino Giovenale), luogo ombroso le cui sale diventano “stanze della visione” intrise di concetti della tradizione filosofica, scientifica, religiosa. Le posizioni riformatrici di Lutero sono una parte dei concetti emersi nell’opera di Zipp, per il quale i pensatori come “psiconauti” hanno mutato la condizione umana e veicolato l’esperienza (auto) riflessiva della conoscenza.

L’opera di Zipp include un eccesso di elaborati ermetici, elementi dall’aspetto cupo e satirico, collages di testi e immagini, sempre all’interno di una metamorfosi di significati.

L'installazione pensata per la sala circolare del Torrione Passari comprende tre sculture antropomorfe, Gisela, Hansi, Irmgard, simili a delle bambole coniche a grandezza umana, associate a un lampadario al neon e un disegno realizzato per l’occasione. Le tre figure con base sferica e teste di manichino, possono essere mosse: esse oscillano e si muovono come giochi emettendo un suono simile al clic-clac, evocano i caratteri di un insediamento ludico a carattere visionario. Zipp vuole creare uno scenario esoterico e formalmente “anarchico” rispetto alla finta “lucidità” del mondo globalizzato. Un ambiente surreale, criptico, grottesco.

L'artista mette sempre in scena un sottile gioco tra familiare ed estraneo, dissociazione e disfunzione, dissoluzione dell’essere e dissacrazione culturale. Mantiene una figurazione “noir” e una partecipazione gestuale del fruitore. Una visone dall’inconscio dove lo sguardo raggiunge la scala umana e resta perturbato.

Per il Torrione Passari Rä di Martino presenta un insieme di lavori fotografici, No more stars (star wars), 2011 e Every World’s a Stage(beggar in the ruins of thestar wars), 2012, realizzati a partire dal sopralluogo su alcuni set cinematografici abbandonati in varie località della Tunisia e del Marocco: ad esempio gli insediamenti di Tatooine dell’universo fantascientifico di Guerre Stellari, rovine nelle dune del deserto.

Rä di Martino esplora l’idea del paesaggio come “controfigura”, ponendo l’accento sul potere persuasivo delle immagini. Nel deserto del Marocco è avvenuta una continua “dislocazione visiva” per la quale sono stati ricreati contesti ambientali e culturali differenti come l’Antico Egitto, Gerusalemme (Il Gladiatore dell’antica Roma o Gesù di Nazareth), il New Mexico, il Tibet (Kundum). La percezione di questo territorio segue una traiettoria di sovrapposizioni visive e mentali, tra la realtà del paesaggio Nord Africano e il retaggio cinematografico sedimentato nella memoria collettiva.

All’interno di set abbandonati e rimaneggiati dalle produzioni Hollywoodiane, le antiche rovine originarie del posto vengono inglobate/contaminate dal materiale scenico lasciato in loco. Ne deriva una visione ibrida sempre in trasformazione, incrocio di reale e artificiale. Significativa appare la veduta della kasbah di Ait Ben Haddou nel sud del Marocco, importante sito nell’Atlante marocchino che ha ospitato più di trenta film al suo interno essendo priva di costruzioni moderne.

Nei lavori fotografici il dislocamento visivo permette sottili richiami ad opere sui generis di Land Art (le finte torrette di avvistamento, le strutture aliene del set di Mos Espa,..).

In accordo con il suo lavoro precedente, da Between a not360, l’opera recente di Rä di Martino elabora contesti apparentemente quotidiani e reali, ma carichi di straniamenti e spaesamenti, incoerenza e ambiguità, panorami oltre la analogia. L’artista attraverso un’evidente abilità fotografica mostra il volto surreale del Marocco solcato dalla presenza di un berbero.