Fatma Bucak – Prestissimo
Fatma Bucak ha scelto come titolo di questa mostra un termine tratto dal sistema della notazione musicale, Prestissimo.
Comunicato stampa
Tra Estremamente lento e Più veloce di presto
Fatma Bucak ha scelto come titolo di questa mostra un termine tratto dal sistema della notazione musicale, Prestissimo. È un'indicazione di tempo che, nell'esecuzione, può essere declinata nei modi dell'estremamente veloce, del quanto più veloce possibile, del molto vivo, del molto presto, del più veloce di presto.
Le sue opere si pongono invece sotto il segno di un tempo rallentato, quasi impercettibile nel suo scorrere (forse un Adagissimo, per cui valgono in musica le specificazioni di molto lento, estremamente lento, più lento di largo).
L'accelerazione cui l'artista allude è quella dei cambiamenti climatici, delle loro conseguenze per le forme di vita sulla terra, dei conflitti geopolitici che ne amplificano drammaticamente la portata. La lentezza è quella della strategia che Bucak ha scelto di adottare nella sua pratica, fatta di ricerca e cura, di risarcimento e trasformazione, di recupero in modi sempre indiretti di forme, materie, suoni che rischiano di essere obliterati o che già sono stati perduti, e che possono essere salvati o riscattati solo se tradotti in altre forme, materie e suoni.
La mostra si apre con l'inquadratura fissa di Man is dead: una colonna in un paesaggio semidesertico che non regge elementi architettonici o celebrativi, ma su cui poggiano un pesce e una pietra – un rito funebre silenzioso in cui la materia inorganica sigilla col suo peso il guizzo di quella vivente e in cui solo alle fronde è concesso un movimento, seppure infinitesimale.
I lavori nella seconda sala sono l'esito di ricerche stratificate e complesse, che connettono discipline, geografie e tempi diversi.
Perpetual lure and insistent fear ha il suo punto di partenza tra il monte Hermon e le alture del Golan, una zona di confine – e di conflitto – tra Israele, Libano e Siria, militarizzata fin dalla guerra dei Sei giorni del 1967 e diventata nuovamente teatro di scontri nel corso della guerra civile in Siria. Qui cresce l'Iris Hermona, una specie vulnerabile e oggi quasi irraggiungibile, minacciata sia dalle operazioni militari sia dal diffondersi dell'agricoltura intensiva. Partendo da immagini fotografiche e disegni, l'artista ha realizzato delle stampe serigrafiche su strati sottili di carte in cotone e seta, che, attraverso un delicato processo di calco, ha poi modellato in forma di minuscoli sassi, lievi e screziati come i petali dell'Iris. Il titolo sottolinea la tensione tra attrazione e paura, tra il fascino seduttivo dei fiori, la tossicità delle loro radici, la minaccia legata al loro germogliare tra le zolle dei campi minati.
Il progetto di Sum of the misdeeds and consents and cowardly acts ha la sua radice in Iraq, dove molte specie di uccelli sono a rischio di estinzione. Per fissarne forma e presenza, l'artista si è rifatta alla pratica, in uso nelle dinastie sumere e assire, di produrre pesi zoomorfi in pietra o in bronzo, in particolare leoni o anatre che recavano impressi il sigillo reale o iscrizioni in caratteri cuneiformi e fenici, traendo ispirazione da quello a forma di anatra appartenente al Museo nazionale di Baghdad, disperso dopo il saccheggio del museo dell'aprile del 2003. Provenienti dai siti archeologici iracheni di Ur e di Nimrud – a sua volta quasi integralmente distrutto nel 2015 da milizie armate – quei pesi non erano semplici strumenti di misurazione, ma piuttosto emblemi del potere, garanzia del valore delle merci, dispositivi di traduzione. In questa installazione le misure di ciascun elemento sono state determinate in relazione al grado di vulnerabilità del genere rappresentato, sulla base della Lista rossa delle specie minacciate elaborata dall'Unione mondiale per la Conservazione della Natura. Maggiori sono peso e dimensione, maggiore è la fragilità della specie in oggetto, e il bronzo, emblema di potere e di durata nel tempo, si trasforma in indicatore di precarietà e di fine imminente.
Il tema del potere distruttivo del fuoco, al centro dell'installazione They burned it all, è anticipato da Black Ink, un breve testo stampato a caratteri mobili con un inchiostro per preparare il quale l'artista ha raccolto e diluito le ceneri di un libro stampato in lingua curda e di una casa editrice incendiata. Tautologicamente, ciò che si offre alla lettura è precisamente la ricetta che ha portato alla realizzazione di quell'inchiostro, in cui sono depositate le tracce materiali di singoli atti di interdizione e violenza, esemplificativi degli ostacoli incontrati dalle comunità curde in Turchia per usare la loro lingua e mantenere e difendere la loro identità culturale.
They burned it all scorre nel rimando e nel dialogo tra due video. Nel primo Fatma Bucak si muove sullo scenario di uno dei molti incendi scoppiati sulle rive del Mediterraneo nel corso del 2021, procedendo tra le ceneri e cercando di cogliere dalle profondità del terreno le testimonianze sonore di quell'evento, l'eco del diverso modo di ardere e consumarsi di legni, foglie, metalli. Nell'altro, ambientato sul palcoscenico di un teatro comunale di Istanbul, cinque coppie di musiciste si preparano a interpretare una partitura, ma nel momento in cui il canto dovrebbe avviarsi tutto si arresta. Il rischio connesso al pronunciare in uno spazio pubblico parole in lingua curda toglie la voce a chi dovrebbe cantarle, e la sola possibilità che rimane è anche in questo caso quella dell'ascolto: segmentata in sillabe e ripetuta come un lamento, risuona fuori campo la frase "Her tişt şewitandin" ("Hanno bruciato tutto / They burned it all" in curdo), che l'artista ha più volte udito proferire in quei contesti.
Al rischio della cancellazione – di specie, luoghi, culture – che la volontà di possesso che guida il potere politico e le forze economiche comporta, il lavoro di Fatma Bucak contrappone non semplici testimonianze, ma forme complesse di ricucitura, risarcimento, traduzione, capaci di riscattare la perdita in reinvenzione.
Maria Teresa Roberto