Feliscatus – Contropittura
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Comunicato stampa
Come una carcassa bell’e pronta per essere spolpata, un succulento banchetto di mattoni interrati, ritenuti da salvare con dissertazioni incomprensibili ad hoc, si apre alla vista di filze di burocrati man mano sempre più di volume esterno ancorché di scarso contenuto. Con legislativi artifizi, da un barile all’altro via via con maggior capienza di vuoto, si impiantano costosi tavoli di lavoro e analisi a tempo indefinito: luoghi onirici di studio che in altri periodi avrebbero lasciato il posto, senza tanti preamboli svianti, a pale, picconi e detriti; prima l’abbattimento e poi la soluzione, e non prima tentennamenti “colti” e poi una impossibile, perché costosa, conservazione e mai nessun progetto sostitutivo. Di rinvio in rinvio, scorrono gli anni e nulla si fa, nulla cambia; nulla si muove, tranne le cose che si pensava di conservare che cadono a pezzi.
L’accostamento di case, l’incontro e l’inseguimento di strade, lo slargo di partenza e la piazza di arrivo senza altisonanti nomi, il veicolo verde e l’ossigeno collante, la struttura di un’urbanistica non ideologica, coordinata e da vivere fluendo in essa come acqua cristallina, sul territorio italiano non hanno posto. Perché non si è mai avuto il coraggio di abbattere cosa alcuna (anche mutare edifici di destinazione trova resistenze a non finire), e appena si trova sottoterra un mattone sporco di calce si blocca tutto, si vocifera ad arte di capolavoro inestimabile, la voce prende piede nell’ignoranza e nella convenienza di baroni letterari e non solo e diventa fatto. Mentre il paesaggio, tra un tira e molla e un dai che c’è tempo, altri non ce l’hanno fatta e non spetta a noi, perciò lasciamo il gusto della firma a chi verrà dopo, viene malmenato di continuo fino ad asfissiarlo in certi luoghi irreparabilmente. Questo per una orba priorità di interessi sul manufatto umano, a scapito di ciò che è essenziale perché naturale; l’incontro, l’inseguimento, la raggiera, il parallelismo di strade senza eroi o santi è da fare. Occorre la cura dei torrenti, e non i fiumi trattati come fogne, e lo sfogo, il pianto di essi su una fogna di maggiori dimensioni, così come viene visto, considerato, maltrattato il mare.
E viviamo, magari per dieci anni (pure di più), con la metropolitana bloccata, impedendo lo snellimento del traffico di superficie che ridurrebbe ira, delirio e consumi, perché c’è un insignificante pezzo di muro che sbarra la strada (ma anche significante, che importanza ha quando si può migliorare la qualità della vita? Un pezzo di muro sempre pezzo di muro è, la qualità della vita persa non si può recuperare). Mentre, dall’altra parte, nessuno si accorge – tutti fanno finta di non accorgersi – che vengono consumati ettari su ettari di territorio alberato per scelte sbagliate e inutili che rendono profitti solo a qualcuno, pesanti e dannose sulle spalle di tutti gli altri.
Per quale motivo anziché restaurare un rudere che non serve a nulla, per di più oggettivamente brutto (c’è questa strana e stupida idea che tutto ciò che è antico sia bello o comunque da salvare e da restaurare, cosa che ovviamente costa) non si spendono quei soldi per rendere antisismica un’abitazione o più abitazioni? Anche una sola vita è più preziosa di qualsiasi monumento, ancor di più se questo non vale una cicca.
Quante case per la povera gente si sarebbero potute costruire con i mattoni, le pietre, i marmi, i vetri, i colori utilizzati per chiese, conventi, palazzi clericali, regge, edifici nobiliari? La nobiltà! Si fa ancora caso, si dà ancora peso a questa parola, si dà tuttora valore a questo termine-discrimine fuori dal tempo.
Gente, tanta, morta di fame, di freddo; malattie, anche per carenze alimentari (dall’altro lato c’erano i malanni dovuti alla sovrabbondanza di cibo, soprattutto carne, miraggio, quest’ultima, desiderio non realizzabile per i reietti, gli scarti umani) o, peggio ancora, sotto i ferri e le torture della sanguinaria Inquisizione che con tali mezzi asseriva di salvare le anime altrui ma al contempo soddisfaceva i propri sadici bisogni. Tante, tante vite da non riuscire a contarle, mentre altri individui, pochi, componenti a vario titolo di una monarchia “assoluta”, predicando che gli ultimi sarebbero diventati i primi, sguazzavano nel lusso di spazi dorati e immensi, decorati da quei cosiddetti grandi, immortali artisti, complici, perciò, anch’essi d’indole sanguinaria, o quanto meno ampiamente e cupamente coinvolta, merlata d’indifferenza (la neutralità interessata è già complicità, convenienza e calcolo, comunanza di geometrie auree concrete e tintinnanti più che brumose atmosfere aeree e illusive profondità lineari); di cosa è fatta tutta la secolare architettura, ma anche la scultura, per non parlare della pittura, dentro la quale e per le quali file chilometriche di piccoli cervelli stupefatti per emulazione passeggiano e si fermano, se non di sangue, disperazione, dolore, privazioni, morte di gente comune senza un nome che ad ogni singola persona apparteneva, oggi assorbito da un pietoso e zitto anonimato, e che secondo il pensiero di chi li portava a perire, in questo momento stanno beatamente passeggiando in lungo e in largo nei cieli paradisiaci, il traguardo di un cammino di pentimenti e sevizie? Semplici esseri di passaggio come pulci, formiche, ciuffi d’erba, fringuelli, lucertole e chi più ne ha più ne metta di vite, a detta dei finti dotti, senza quell’anima-invenzione che è il punto cruciale attorno a cui ruota tutto il potere materiale (l’unico a muovere realmente il loro interesse) che detengono.
Esseri che ci siano o non ci siano non comporta per la morale di un certo fattore umano, che si autodefinisce eletto sugli altri, l’insorgere di uno scrupolo, un dubbio, l’indugio su una perplessità, un timore o un dispiacere, il cambiamento di una qualsivoglia idea, seppur minima e leggera come una frasca.
Quanto può importarmi di posare l’attenzione su proporzioni, colori, spazi chiusi o aperti, rapporti tra forma e colore, prospettive e fughe, orizzontalità e verticalità di quartieri, città tutte studiate da cervelli preventivamente incanalati, forgiate da un solo dispotico pensiero, adattate a un’unica forma moltiplicata all’infinito, e per questo in grado, scavalcando la coscienza e la volontà, nei momenti di abbandono e di ridotta vigilanza, di impostare l’intelletto verso menzogne millenarie? Come fare a sgombrare la mente da tutto questo, quando essa, nascendo e vivendoci in mezzo, fin da subito comincia a plasmarsi, ad assorbire contenuti che saranno basi per comportamenti futuri?
Quella cui tanti pensano come storia alla quale appartengono, più obiettivamente va vista come prigione che, facendo leva su un supposto valore estetico, li tiene segregati, minando l’indipendenza di concetto e colpendo ripetutamente al fianco la razionalità per condurla al facile deragliamento.
Bisogna rendere inoffensiva per la ragione la storia dell’arte, altrimenti ci si ridurrà sempre più impantanati fino ad arrivare all’impossibilità di staccare un passo. Si mette già un’autoritaria e indelebile briglia, in una forma mentale predefinita, a un bambino di cinque anni che viene trainato, costretto a camminamenti ammirati e faticosi, le cui sponde-barriere lo si obbliga a guardare con soggezione, percorsi renitenti e irriverenti perché colmi di stanchezza, incomprensibili, estenuanti e succubi, tra chilometri di tele dipinte, muri affrescati, marmi scolpiti, legni intagliati, colonne tornite, capitelli dorati (ah, l’oro! Che smuove la brama ponendo sul capo di chi si vuole che taccia peccato e colpa, e col sovrastante giallume dà l’abbaglio di foglia in foglia, tessera su tessera e annichilisce volontà già compromesse e tendenti al piegamento e al nulla, afone, soggiogate da indotto stupore, assediate nella misura decuplicata di un valore immanente). Percorsi dentro labirintici spazi (disorientamento e stanchezza confondono, altro che Stendhal con le sue sindromi) pieni di echi in mezzo ad assordanti intorni e cornici (dorate) che servono a ribadire la distanza aulica dell’eccelso “ingegno umano al servizio dell’idea”; passi dall’incedere strascicato, che seguono un flusso rammollito, con biglietti pagati – perché questi incolonnamenti cumulativi, nei quali l’individuo viene ridotto a poco in funzione di un pensiero comune fino a sparire del tutto dentro una massa assenziente, costano, e per una famiglia media anche non poco – che hanno il prezzo di una grata a vita, le cui visioni obbligate che si susseguono respiro dopo respiro, sbuffo dopo sbuffo, incombenti su testa e fianchi, il cervello di un bambino farà fatica da adulto a liberarsi. Perché poi, negli anni che separano questi due periodi, la fanciullezza e l’età matura, l’infezione dei germi di finzioni così diffuse continua a moltiplicarsi, per la presenza, con fastidiosa, corruttiva e insopportabile invadenza in tante cose che giornalmente capitano sottomano e davanti agli occhi. È fatta di logica e ragionamento la strada da seguire per estirpare, possibilmente in modo indolore, il lato irrazionale dall’intelletto di oggi, scientifico – e meno male – perché è alla scienza che deve il suo benessere (la tecnologia, la medicina, l’anestesia! Basterebbe questa sola parola: anestesia, negata da chi induceva alla sofferenza e al dolore dichiarandoli mezzi di “salvazione”), alla scienza, al cervello, alle conquiste del pensiero e non agli aldilà di favole. Poiché sappiamo che essi questo sono, favole, tuttavia ancora attive, e non come raccontini inoffensivi, per tanti individui che pur vivendo di tecnologia provano gusto a rotolarsi nel loro carattere magico.
L’idea di elevazione, macerata nell’impossibilità di alzarsi in volo (il pipistrello è l’unico mammifero capace di volare), il suo trasferimento in area metafisica di desideri rimasti tali – oggi si può, ovviamente utilizzando non fisiologiche capacità ma mezzi esterni al proprio corpo –, avvia la scarsa considerazione che si ha della terra, pestata come luogo di abbandono e rifiuto.
Come fare a cancellare le griglie di architettura e storia, istruzione e memoria? Come fare, cosa fare?
Da tempo non giro per città, i centri storici non hanno ore d’aria a sufficienza.
Dovevo smontare l’idea del timpano, dell’oculo, del culmine, del piano triangolare, della struttura piramidale, dello sguardo ascensionale.
Non deve esserci né un sopra né un sotto.
Per ora mi accontento di smontare l’idea della salita, la testa ascensionale, la spinta verso l’alto, lo sguardo verso il cielo.
Né sopra né sotto, né sinistra né destra, né da un lato né dall’altro, né salita né discesa.
Dal quadrangolo al triangolo, da trecentosessanta a centottanta gradi; quadrati, rettangoli e triangoli, divisi e suddivisi.
Geometria: al servizio di nessuna ideologia. Geometria: senza idolatria, questa non ci serve, non c’è più posto per gli idoli, cose ben più importanti, e soprattutto veritiere, urgono.
Non c’è un sopra e neanche un sotto nello spazio della gravitazione verso un centro; tanti centri, innumerevoli centri di disciplina numerica. Ridurre a nulla il concetto di base e vertice, di base verso il basso e vertice verso l’alto; base poggiata su un piano e vertice lanciato dalla parte opposta, ovviamente così…
È questo "ovviamente", culturalmente acquisito, che occorre rimuovere. La struttura piramidale ascensionale che governa la sudditanza politica e l’illusione della trascendenza.
Non si vola soltanto in orizzontale o verso il cosiddetto alto. Lo si può fare anche verso il basso (chiamiamolo così, anche se è un termine improprio), in direzione degli abissi marini. Sotto i piedi abbiamo una smisurata quantità di ciò che manca in tutto il sistema solare, almeno in queste forme cariche di vita: l’acqua, semplicemente l’acqua, fino a una profondità di undici chilometri, che sulla terraferma (anche sopra la superficie del mare) sono una distanza trascurabile, ma dentro l’acqua, verso le sue profondità, diventano un altro mondo, il nostro mondo, quello da cui proveniamo. Noi, esseri figli d’acqua.
Frontoni, timpani e cappelli a punta di streghe, erboristi e guaritori; alchimie di pochi segni e prospetti di colonne orizzontali; gerarchie di qualsiasi tipo e natura decadute, scale alimentari, schemi di comodo e semplificazioni scientifiche, tutti privati di alte e basse punte e piatte basi.
Non pensavo di tornare così presto nei territori di Iberia.
Oggi per un autodafé ancora presente, che nascosto sotto altre vesti, cinico e subdolo perdura, e sangue, torture, sofferenza, mutilazioni, stiramento di membra, schiacciamento di ossa, e così via verso la santità. Roghi di corpi e di fantocci d’artista di corpi già morti.
Non posso camminare per i corridoi degli Uffizi, spostarmi da una sala all’altra senza pensare al sangue, alle grida di dolore, ai morti che sono serviti da medium per impastare quei colori e collanti per gessi e imprimiture su cui si sarebbero imbastite e dunque cucite storie inventate dirette al plagio e al dominio delle volontà i cui strascichi sono tuttora visibili nei comportamenti conseguenti, nel modo di muoversi (o di essere legati) in città medievali, rinascimentali, barocche, meno in quelle neoclassiche: nel biancore funereo dei marmi settecenteschi e nel rifiuto di orpelli c’è aria di un passato che viene considerato – a ragione, avendone per di più l’aspetto – un cadavere riesumato, e in quel vento di rinnovamento c’è odore di tranciamenti illuministi da lungo tempo covati.
Ho sempre meno voglia di rimirare stesure e pittate velature di torture, a detta di qualcuno tocchi di delicatezze soavi. Non lo erano, patinate di soavità, quelle facce circondate di bianco e di porpora, raffigurate con studiate linee e calcolate forme in prospettive di volumi costosi e sfarzosi; poco raccomandabili fisionomie che indicavano, dopo averla imposta agli altri ed elargendo copiosamente tutto il contrario a se stessi, la povertà, anche la miseria, come porta privilegiata per l’aldilà.
Leggiadri e soavi non lo sarebbero mai stati, perché corpi inesistenti come sequenze non scritte di numeri astratti, quelli di migliaia, centinaia di migliaia, milioni di individui di cui nessuno oggi conosce il nome né mai potrà conoscerlo.
Fosse costata anche un solo grido di un corpo sfinito, la presunta bellezza di siffatta pittura accompagnata dalle sue consorelle ne verrebbe irrimediabilmente incrinata e compromessa, dalla cupa e colpevole indifferenza – zeppa di ferite che un giorno saranno di Lucio, e cicatrici di Alberto rese visibili col colore ilare e malinconico, sdolcinato e amaro, soprattutto impreziosito con un restauro malfatto, di Jean-Antoine –, dalla corrotta superficie pittorica o plastica bell’e pettinata in apparenza, ma in sostanza tesa a occultare crudeltà e nefandezze, sempre in nome di uno sconfinato amore per il prossimo.
Feliscatus