Feliscatus – Dal 1970 a Modulo4
Mostra personale
Comunicato stampa
Su una tela di 90 x 60 centimetri avevo cominciato a dipingere una o forse più figure di impiccati.
Non essendomi mai capitato di vedere un impiccato dal “vivo”, mi risultava difficile rendere pittura veritiera e credibile ciò che avevo immaginato; l’anatomia del collo, magari spezzato in conseguenza del peso e dello stiramento, e l’espressione facciale di chi muore per quel tipo di trauma e soffocamento, avevo cercato di costruirle con la deduzione. Al cinema sì (in televisione no, allora assai puritana e censoria), si vedevano le impiccagioni, ma chiaramente si capiva che era una rappresentazione. Nell’impossibile verità, in questo caso (l’incontro ravvicinato con la forca non era l’urto di un pugno che poteva, per sbaglio, realmente avvenire), di una finzione filmica, s’intuiva l’imbracatura al torace, se ne vedevano persino i segni sotto le camicie in certi film girati velocemente e curati poco. La sceneggiatura a volte prevedeva che a qualcuno venisse tolta la vita con la corda al collo, soprattutto nei western, era un classico questo tipo di condanna per i ladri di cavalli.
Avevo sette o otto anni quando, dalla strada nella quale mi trovavo, di ritorno a casa dopo essere stato a giocare, coricato su un cartone, in uno scivolo di terra battuta che precipitava, gibboso e ripido, verso un loquace canneto quasi sempre frustato dal vento, vidi, attraverso una porta di legno biancastro seccato dal sole, socchiusa e triste, nell’illuminazione debole e priva di voce dell’interno, disteso sul pavimento di pietre e terra, con la testa verso l’uscio, un asino. Morto, pensai. Era vegliato dai padroni, un uomo e una donna, lui da un lato, lei dall’altro, seduti su due sedie impagliate. Il dolore che proveniva da quello spiraglio era uguale a quello che ci sarebbe stato per un componente umano della famiglia, giacché tale era l’asino – anche nella condivisione dello spazio domestico degli umani –, oltre ad essere mezzo di sussistenza per muoversi negli spostamenti per la campagna, forza motrice per il carretto.
Quello o quegl’impiccati che avevo dipinto li trovavo corpi rigidi appesi, insignificanti nella postura e nell’espressione, per cui un giorno decisi di cancellare completamente quanto avevo fatto. Era il 1974, non avevo ancora vent’anni.
Su quella tela iniziai a dipingere, a olio, due figure, una a mezzo busto, una intera, in piedi, sospesa. Quella a mezzo busto, in primo piano, aveva i capelli lisci e lunghi, la testa reclinata all’indietro, un collo gonfio di sangue e d’aria, come d’aria era pieno il petto coperto da una maglia senza maniche di tessuto leggero chiaro, di simile foggia e materia il gilè che cadeva sopra la maglia. E stava urlando. Una gamba dell’altra figura in secondo piano – nella quale il contrasto nel passaggio dei toni era più morbido e attutito, meno vivido, velato – era leggermente piegata, in procinto di muovere un passo. Due linee verticali, poste dietro la figura in primo piano, si estendevano da sopra a sotto, per tutta l’altezza del dipinto; l’incontro di queste due linee con un’altra orizzontale, dopo avere, quest’ultima, attraversato la parte alta della testa della figura in un’esecuzione capitale che, in fin dei conti, nella tela era rimasta, avveniva nel vortice di pieghe di un drappo che sfumava alla base di tre elementi rettangolari, quello centrale più stretto dei due laterali, tagliate, queste forme geometriche, come la figura in piedi, da due strisce più larghe di quelle ortogonali che convergevano nell’intrico tessile, e stavolta scure. Quindi, i tre elementi rettangolari, posti come astratta e slanciata scenografia, si scioglievano, verso la base, su una scura linea d’orizzonte, con un accenno, in controluce, di vegetazione. Quel dipinto, al quale diedi il semplice titolo “Figure”, che in parte doppiamente urlava e in parte no, fu un quadro di svolta; per la divisione dello spazio che, variando le proporzioni da un lavoro all’altro, anche in base al rapporto tra altezza e larghezza del supporto, cominciai a sviluppare nei lavori successivi, e per la cura pittorica, fisionomica e coloristica – sui toni bruni, caldi e rossi, che da anni non utilizzavo – nel volto della figura, il cui urlo, ancora contenuto in un confine ellittico e progressivamente dispensato dalla mimica facciale, di lì a un anno avrebbe generato sorrisi beffardi e dentature prominenti saldamente ancorate a bocche segnate da lacerazioni fonetiche e sanguinolente ferite.
L’anno prima avevo lavorato a un quadro che ruotava intorno alla consistenza della materia umana, con la precarietà di questa disegnata dalla luce, nella realtà liquidamente modellata da una sofferenza imbottita di gomitoli di funi. Alla morte che è scomparsa e separazione definitiva. La tela, a olio, era di dimensioni piuttosto grandi, 160 x 150 centimetri. In un interno spoglio, grigio come il colore che dominava tutto il dipinto, con un elemento architettonico bidimensionale inclinato, a forma di elle, e tre piani geometrici in prospettiva, stava distesa, su un letto, una figura negli ultimi istanti di vita; un’altra figura stava in piedi, illuminata dal basso e vestita con abiti non riferibili a un particolare periodo, le braccia e le mani protese in avanti, dove filamentose fibre muscolari, vasi sanguigni, tendini e nervi lottavano con uno strato sottile e trasparente di pelle, ripetutamente contro di esso premevano a fiotti sordi urti per mettere in risalto, evidenziare con giusta luce, fremiti e tremori, rassegnazione e pianto. Per quanto un quadro lo si voglia far parlare, è e rimane sempre muto, pensavo allora; per tale motivo, in quel periodo, davo voce alle mani nude, anche con scorci prospettici che ne proclamassero la tonalità sonora più acuta, fino a essere, da voce remissiva di rannicchiato abbandono, urlo poderoso, rabbioso, ringhio lancinante.
Dietro la figura distesa s’innalzava il curvo profilo di due ombre, pittoricamente fatte, e fisicamente costituite, di colature gorgoglianti, nei toni gravi di un mormorio continuo.
Più o meno trent’anni dopo in quelle figure di ombre liquefatte avrei visto i primi dipinti dai quali sarebbe nato Dracula; nella figura in piedi, in primo piano, l’avanzamento con la particolare deambulazione di Frankenstein.
Nella Sedia del ’71, su tela 60 x 40 centimetri, c’era parte di quello che normalmente mi capitava di vedere, seduto, poggiato o sovrapposto ad essa. Prendeva, in altezza e in larghezza, quasi tutto il campo del quadro, la monumentale sedia siciliana, e nulla aveva da spartire con quella dell’olandese Van Gogh. Tutto ciò che in trasparenza la copriva aveva tonalità brune o gialle: un libro, un chiavistello, l’appendiabiti diviso in due, il treppiedi di un tavolo, i tetti di canali, un campanile spuntato, vegetazione spinosa, foglie carnose di una pianta grassa, alcune stecche abbassate di una persiana che col tempo, nella tensione della tela, hanno preso una forma ondulata.
Conobbi i quadri e la pittura di Bacon nel 1970. Cinque anni dopo quell’impatto emerse con energia e convinzione, e per un lungo periodo fu immancabilmente presente. Rimasi affascinato, forse nello stesso anno o in quello prima, da una mostra di Sughi alla Robinia di Palermo. Ricordo un quadro con una figura e larve di tanti gatti. Più in là capii che quel modo tutto italiano, tranquillo e superficiale, con “equilibrati” sfregazzi, di guardare Bacon rendeva il pittore inglese composto e classicamente inoffensivo, fors’anche floreale art nouveau. Molto meglio il profumo del mare e di acqua ragia nelle copiose e policrome colature di Cremonini. Certo, Bonnard era un altro paio di maniche, non c’era bella calligrafia nel nabi pentito e pubblicitario ad honorem, nell’anallergico impressionista; neppure ripetuto e sterile compiacimento si trovava in quella pennellata che sfavillando circolava corrosiva nella luce della pittura e in quella dei colori. È l’unico pittore, Bonnard, nel cui lavoro l’una e l’altra si possono separare e individuare singolarmente. Anche l’aria che accomuna un suo dipinto a chi lo sta guardando è calma estiva, abbagliante, di miraggi puntinati e cromatismi tersicorei. Irripetibili le ferine donne al bagno con arti nervosi e tesi come animali circospetti o femmine-madri in agguato.
In quasi tutti i dipinti del 1972 e ’73 c’è la figura, la poca consistenza corporea della quale, benché taluna imponente nella stazza, è vestita di indumenti la cui trasparenza è resa semiopaca da una miriade di pieghe incise da luci marcate. In qualche dipinto c’è il paesaggio, ridotto a un semplice filo d’orizzonte; l’immateriale suggerimento alla fisicità in quest’accenno di un luogo è sovrapposto alle figure; e, ancora, gli interni, presenti e non presenti, scanditi da linee e piani orizzontali e verticali, come certe architetture (il termine scenografie sarebbe più appropriato) di esterni dai colori prettamente subacquei, che sono poi i colori di tutto il resto.
Non dipingevo frequentemente il paesaggio – con un cielo, magari nuvoloso, che preferibilmente sapesse di lontananza verso un orizzonte rischiarato, sempre odoroso di mare – ma in qualche quadro lo facevo; come quello nel quale c’è un materasso-giaciglio, con lenzuoli ricamati e coperta di lana disordinati e ravvolti, così lasciati nel calore corporeo di chi si è appena alzato, ed è sovrastato, in uno dei lati lunghi, da quinte trasparenti; è disteso sul terreno, davanti a una campagna umida di pioggia, luogo di riposo per figure cui dormire al chiuso, fra quattro muri, costa l’ansia e la sofferenza della claustrofobia. Lì si aggira un essere animalesco con le mani dietro la schiena, piegato in avanti, prigioniero in un luogo aperto. Cammina, digrigna i denti e ride.
Si trova sempre un lunedì per ricominciare dopo pessimi giorni festivi.
Al grigio glauco che caratterizzava i quadri dei primi anni settanta, escludendo una breve parentesi nella quale era il giallo a dominare, a metà di quel decennio, e ancor più nel ’76, si sommò, insieme al ghigno “con o senza il gatto” delle figure, una luce carminio che scomparve l’anno successivo e quello ancora dopo, si può dire l’ultimo, il 1978, fatta eccezione per sporadici quadri nei primi anni ottanta, della pittura siciliana.
Nel ’77 e ’78 tre soli colori ci furono, il bianco e soprattutto il nero in alcuni quadri affiancato da geometriche stesure di un particolare giallo, o di mescolanze di questo col nero. Solo in due o tre lavori misi del rosso, ma già allora lo sentii come qualcosa in più il cui inserimento non mi convinceva pienamente.
In quei due anni il vero, l’immaginazione e la memoria che avevo utilizzato fino ad allora come modelli, con una certa quantità di disegni e studi preparatori, cominciai a sostituirli con la fotografia che in precedenza al vero facevo e poi sviluppavo e stampavo correggendone spesso le luci. Perciò la pittura, partendo dall’immagine fotografica, che non si stancava e non si muoveva, diventò più dettagliata, per lo più concentrata in certi punti, dove al minuto particolare riservavo molta attenzione, con pennelli tondi fini, su calcolate porzioni della tavola o della tela, lasciando al vuoto (buio), anch’esso dipinto, ma con stesure piatte di colore nero, una notevole quantità di spazio. Fu, quel biennio, il periodo di Modulo4. Già a partire dagli ultimi mesi del 1973, e soprattutto nel ’74, suddividevo la superficie di alcuni lavori secondo una o due linee verticali e una orizzontale col punto d’incontro spostato verso il basso, a sinistra o, più spesso, a destra. Ma nel ’77 cominciai a codificarla, calcolarla con precisione questa divisione dello spazio, a raffigurare Modulo4 in ogni dipinto con regole matematiche e geometriche. Talvolta con proporzioni vicine alla sezione aurea. La natura si assoggettava ai numeri e a rapporti matematici, la pittura era regolata da una serie di forme geometriche; fino a reinventarla, la natura, per mezzo di una tela dipinta. Togliendo, ad esempio, a un fiore un petalo dopo l’altro, e risistemandoli per ricostruirlo reinventato nella forma quadrata.
Così finì il periodo siciliano. Si chiuse con un incontro e un pareggio, uno a uno suddiviso in tre: tra iperrealtà e astrazione, tra pieni e vuoti, tra essere, per quel che volevo essere, e non essere.
Feliscatus