Feliscatus – Onde immanenti
Una normale e necessaria oscillazione accompagna il tempo che passa. La rotazione che ci vuole dà una misura al tempo che scorre.
Comunicato stampa
Una normale e necessaria oscillazione accompagna il tempo che passa. La rotazione che ci vuole dà una misura al tempo che scorre.
L’oscillazione è parola e musica del tempo, ne rappresenta la colonna sonora. E il tempo dell’oscillazione ci è congeniale, come la musica.
L’oscillazione e la rotazione non s’incontrano, né si annusano, neanche da lontano.
Lentezza, lentezza, lentezza è la porola d’ordine.
Un movimento oscillatorio, se non continuo, quasi, cresce con noi e ci sviluppa; interrotto, si può dire, da pause lunghe non più di tanto, brevi quanto basta, durante i mesi che precedono la nascita, e cessa, per riprendere sotto altre forme e con tempi saltuari, secondo il proprio bisogno di lentezza, quando, dall’aldilà immanente che è il ventre materno, passiamo nell’aldiquà, anch’esso immanente, che è la realtà con la quale impareremo da iniziati a rapportarci. L’aldilà dell’alvo materno, materialmente definito, è comunque un aldiquà, ed è l’unico “aldilà”, se così lo si vuole chiamare, col quale veniamo in contatto. Non ne esistono altri. E chi ci parla di oltremondi e vuol convincerci di un “dopo” la morte, evento, quello della fine, che in natura avviene prima o poi per tutto, lo fa per pura convenienza, per calcolo, per il potere che riesce ad esercitare proponendo questa idea bizzarra, illogica, innaturale, priva di senso, di una vita “infinita, eterna”, vestendo inoltre i panni di psicopompo. Storie che vengono propinate, inculcate da individui che poi, in modo subdolo, convincono ad accettarle come ispirate e ineludibili con lo spauracchio della punizione e dannazione, chi è disposto (o viene costretto) a credere a invenzioni di questo tipo, che oggi, a chi ha un minimo di materia grigia, non dovrebbero apparire altro, senza tema di sbagliare, che favole truci; nel totale rifiuto di sceneggiate teatrali con persone vestite in modi ridicoli, e cerimonie magiche e scaramantiche che forse potevano essere delle risposte, più che ad acute domande, alle paure irrazionali di cervelli scarsamente educati e molto poco inclini all’analisi dei fatti (siamo sempre là… e se fosse?), paure dalle lontane origini aggrumatesi a partire da duemila anni fa. Ma oggi? Come si fa a credere a cose inverosimili come inferno, purgatorio, paradiso, per di più trascinati dalla vocazione per la sofferenza che redime e da una costante pulsione di morte?
Ho utilizzato delle scatole di cartone più o meno leggero o più o meno pesante, secondo i punti di vista e la coscienza del tatto dei propri polpastrelli; scatole aperte, distese e prive di uno dei lati grandi; la parte staccata l’ho usata ugualmente, per dipinti più stretti e con una struttura semplificata. Erano, all’inizio, contenitori perlopiù di alimenti, pasta, riso, biscotti, creme caramel, mousse, cereali, eccetera. Non per la prima volta sceglievo questo tipo di supporto. In passato mi era capitato di usarlo per Cavalli immanenti (a dondolo) III, Feliscatus IV, Faccia di tela scura, Bianco e rosso. I cartoni di adesso risalgono a quei periodi, quando, prevedendone l’uso, mettevo via via da parte scatole di vari prodotti vuote e distese per occupare meno spazio; dopo qualche lustro, è arrivato il loro momento. Allora, analizzandone forme e misure, avevo già notato che queste confezioni, pur non essendo state progettate per assolvere e soddisfare un criterio estetico, bensì funzionale, presentavano proporzioni, fra le varie parti e tra queste e il tutto, che potevano dare dei punti e nulla avevano da invidiare alle tonnellate e tonnellate di polittici legnosi con storie e racconti illustrati (i soli che, chi manovrava i fili di una pilotata, rassicurante, perenne arretratezza, decideva di far conoscere attraverso la pittura) ai quali veniva affidato il compito, da chi di conserto all’artista si prefiggeva questo obiettivo, di plagiare le masse ignoranti e analfabete, e anche coloro i quali ritenevano di non esserlo; convincendo col ricatto e la violenza chi resisteva ad accettare tali direttive o si poneva magari qualche domanda di troppo. Polittici, dunque, con pitture stucchevoli, assai simili per non dire uguali (l’uniformità fa sì che nulla cambi) tra di essi; il più delle volte con temi funerei – che nello sviluppo e nelle intenzioni dovevano rendere piacevole la morte, addirittura desiderabile, auspicabile e pure premiato (intanto, muori cavallo…) il sacrificio (degli altri) – e di dozzinale indottrinamento.
Quelli che ho usato io, invece, sono pezzi di cartone destinati a essere reinseriti nell’iter produttivo per il riciclo, efficienza del percorso e arrivo di questo a compimento permettendo, ma non sempre è così, che la procedura di recupero, cioè, venga completata.
E li ho dipinti. Utilizzando un unico colore, l’azzurro, in tre o quattro tonalità, affiancato in qualche lavoro dal bianco; in un cartone al posto del bianco ho usato il giallo.
C’è il cielo, c’è il mare; ci sono le onde; reali nel disegno, immanenti nella duplice sostanza di colore e acqua. Basta; come pittura basta così. E poi sono presenti file di buchi. Che non sono i buchi del morso del vampiro ripetuti in sequenza. No, sono semplicemente file di anelli che compongono delle catene verticali (in seguito oblique) che ne tengono altre, di file, stavolta perpendicolari alle precedenti; tre file di onde sfalsate, anch’esse, per la maggior parte, di sfumature di azzurro.
Basta, tutto qui. Onde dipinte che oscillano sopra il mare dipinto, davanti a un cielo dipinto. Onde su cui, volendo, con esse si può oscillare, ci si può cullare, rilassare; si può anche dormire; pensare, soprattutto; essere coerenti con la natura, essere natura nella natura, padroni e cultori, quando è possibile, dell’ozio. Del piacere di far niente; né produzione né danno. Nulla.
Onde di legno e catene di nulla disegnate dal vuoto. Perché in natura non esistono prigioni e gabbie mentali. Quelle le costruiscono esseri umani per avere potere su altri umani; per farne che, poi? Si vive così bene non esercitando potere su niente e nessuno!
Sono onde aperte, non chiuse, e buchi come entrate e uscite non sbarrate.
Onde fatte di acqua, per noi, come l’oro d’acqua. Onde immanenti, come noi.
Quando gli umani non avevano idea di cosa fossero le stelle, i pianeti, il cielo, il sole, la luce, il buio, o meglio, le risposte agli interrogativi che questi continuavano a porre le avevano, ma erano campate in aria, fantasiose, in sostanza magiche, perciò totalmente errate, allora incominciarono a fabbricare nella loro testa, in quel contorto marasma magico di rifiuto del distacco e della morte, oltremondi ai quali affidare una risposta valida per tutto e che potessero dar loro l’illusione di una seconda vita (immortale!), mettendo in uno stato di continua mortificazione – condizione, questa, la sofferenza mentale e fisica, in un pensiero perverso, vista come via d’accesso all’immaginaria immortalità – l’unica vita della quale disponevano.
E se per duemila anni non fossero state sistematicamente bloccate la ricerca, la spinta alla conoscenza, le conquiste della razionalità, oggi saremmo molto più avanti, avremmo un rapporto diverso, di vicinanza, parità, dialogo e collaborazione con la natura, certamente no da sottomettere – idea malsana questa – perché sapremmo quale bene prezioso, unico, insostituibile, irripetibile per il tempo smisurato occorso a portarla a questo punto di varietà e complessità, essa sia; di sicuro non sarebbe nelle condizioni in cui si trova adesso, condizioni che peggioreranno sempre più, perché i governi non riusciranno a mettersi d’accordo sulle misure urgenti da prendere. Ora; e gli individui non sono disposti ad accantonare prima e rifiutare poi (questo passaggio soft forse potrebbe essere una soluzione) la voglia di smodato consumo che li possiede. Dall’individuo alle masse a chi legifera, perciò l’idea disastrosa è sempre la stessa, lasciare che tutto continui così.
È il mare, è l’acqua ciò di cui abbiamo bisogno; non ci scorrono solo nelle vene, ne siamo fatti. Dobbiamo far di tutto per proteggerli dai cervelli votati al soprannaturale.
Gli animali, noi, le piante, le rocce; le rocce, le piante, noi, gli animali, l’acqua, l’aria, la luce. Sono polittici che parlano di sacralità quelli che ho fatto, dell’unica cosa sacra che abbiamo: la natura.
In questo periodo un certo Christo sta installando una passerella in un lago italiano per poter camminare sulle acque; la favola colpisce ancora! Quanto è costata, in termini ambientali, la produzione di tutto quel materiale? Quanto costerà rimuoverlo? Se a qualcuno venisse in mente di coprire, ad esempio, a strisce metà lago di Garda, gli si permetterebbe di farlo? O di coprire il Monte Bianco, oppure mandare centomila razzi sulla Luna per impacchettarla? Certo, se ne parlerebbe, ma dal lato estetico cosa avremmo ottenuto che io non possa riuscire a fare utilizzando pochi decimetri quadri di cartone destinato al macero? La natura ci ha dotati di immaginazione e creatività proprio per evitare, tra l’altro, un gigantismo inutile e dannoso. Vedi l’inosservanza del minimo spreco nell’isola di Pasqua. Nascondendo la Luna, forse si arriverebbe al coronamento del sogno di quegli emuli (checché poteva pensarne Longhi nel ’13, tra Rinascimento e Barocco e un artificio lessicale e l’altro) dei cubisti che furono i futuristi-interventisti, la cui idea di velocità mirava ad uccidere il chiaro di luna e distruggere i musei, e adesso è lì che si trovano, non sulla superficie lunare ma appesi a pareti museali (quando si dice la coerenza!).
Be’, idee buone ce n’erano; come quella di sbarazzarsi del vecchiume stantio. Conosciamo bene, però, l’involuzione che con la guerra – condivisa dai futuristi – certe idee innovative e di rottura con un pesante passato hanno avuto, la fine che quei propositi rivoluzionari hanno fatto.
In un periodo di innovazione, detto meglio di ubriacatura tecnologica, come quello delle avanguardie, tutto poteva starci; ma oggi, in anni di ripiegamento e riflessione, contenimento e parsimonia (noi parliamo e i ghiacci continuano a sciogliersi), la realizzazione di opere inutilmente ciclopiche no, non ha nessuna giustificazione, non si tratta di censura ma di limitazioni necessarie che dovrebbero partire dalle singole persone, a maggior ragione dagli artisti; e poi, cosa significa la parola censura quando è il buon senso a prenderne il posto?
Lo scopo è sempre quello, fare colpo fregandosene di tutto il resto, diventare sempre più ricchi e famosi, a qualsiasi costo.
L’incuria è indirizzata in modo speciale, quasi una vocazione, quasi un accanimento (è di tutti, quindi non siamo noi ma altri a doversene occupare), al luogo in cui viviamo – che ci ospita – e che sembra così estraneo, lontano, resistente alla rovina, in grado di assorbire qualsiasi urto; ma c’è un punto stretto nel quale non ci sarà più spazio per un’inversione di rotta, che in un certo qual modo permetterebbe di tornare indietro. Lì, entreremo nella disperazione, capiremo che tutto è finito, cercheremo di toccare, finalmente ma troppo tardi, con mani che non la toccheranno più, l’importanza dell’acqua e dell’aria. Ci sarà un’altra occasione, tra qualche secchiata di milioni di anni, da tirare fuori come da dentro un pozzo, con la luna che sta a guardare, la stessa luna di cinque giorni fa.
Il ciclo di dipinti ora esposto è nato per caso.
Ho fatto un lavoro di riparazione su due sculture, non mie, di proprietà di un mio amico falegname, Tommaso; sculture di scarso valore alle quali, mi ha detto, è legato per ricordi suoi personali. In passato gli avevo dato da realizzare dei progetti, come, nei primi anni novanta, i piedistalli per le sculture di arance azzurre in terracotta e il cavalletto per il monumento a Garibaldi. Adesso è in pensione e periodicamente torna per qualche mese al suo paese natio in Basilicata, dove ha una casa, ed è lì che le sculture sono destinate. Per il restauro ho approntato alcune tonalità di azzurro, preparandolo ho ecceduto nella quantità, perciò ne ho avanzato. Del colore rimasto, mi sono chiesto: che ne faccio?
La Sicilia in questi giorni brucia / gli alberi della Sicilia vanno a fuoco / è il sacro immanente che va in fumo / bisognerebbe inscatolare una parte di quel fumo / in un barattolo di vetro / con un cartiglio sotto un’utile reliquia di carbone; / mai più si scriverà sul cartiglio. / Mai più ci saranno quegli alberi. / Mai più, mai più quel fuoco sugli alberi.
Tortona, metà giugno 2016
Feliscatus