Feliscatus – Ruota immanente

Informazioni Evento

Luogo
11DREAMS - ART GALLERY
Via Rinarolo 11/c, Tortona, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

dal mercoledì alla domenica 16 – 19

Vernissage
21/02/2016
Artisti
Feliscatus
Generi
arte contemporanea, personale

Penso che immaginazione e memoria siano strumenti adatti ed efficaci per occupare e riempire spazi vuoti. In pittura lo sono.

Comunicato stampa

Quando viene amputato un arto, o parte di esso, il cervello, avendone memoria, continua a sentirlo presente, ancora vivo, sensibile in tutta la sua precedente, naturale estensione; e se si percuote o punge il vuoto che l’arto mancante ha lasciato si prova dolore come se ancora ci fosse; oppure può verificarsi che dal tatto, una volta vigile, reale ed efficiente, arrivi – sensazione (se così si può chiamare) raffinata fino a questo punto – piacere o repulsione secondo i sentimenti che suscita ciò che gli occhi vedono vicino, ad esempio, a dita non più reali e ormai assenti. Almeno, penso che sia così, perché mentre quanto detto all’inizio l’ho letto e sentito più volte, la “persistenza della memoria” e la seguente elaborazione mentale spinta fino alla proiezione reale del tatto pensato in una trasversale specializzazione immaginativa e mnemonica, non ricordo di averlo visto o sentito, o forse sì; non mi va, d’altra parte, di cercarne conferma su internet, cosa che potrei fare; voglio comunque pensare che l’idea che si ha di integrità del corpo, coordinata dal cervello, dal pensiero, dalla ragione, dall’immaginazione e dai sogni porti a questa visione di sofferto realismo. Anche se si tratta di sensazioni che possono essere definite leggere, il tatto legato al semplice piacere anziché all’istinto di sopravvivenza nella difesa da qualcosa che può colpire, ferire, far male, elidere.
Medici e neurologi potrebbero essere più precisi a questo riguardo. Ad ogni modo penso che immaginazione e memoria siano strumenti adatti ed efficaci per occupare e riempire spazi vuoti. In pittura lo sono.
Nel 1990 cominciai a occuparmi di scultura. A più riprese l’avevo fatto negli anni del liceo, anche al di fuori dei corsi scolastici, e prima ancora quando, intorno ai dieci anni, andavo a prendere la creta presso una fornace che fabbricava nziri e giarre, e anche altro, forse vasi, forse salvadanai. Mi capitò di avere a che fare pure con il marmo. Abbandonai presto questo materiale il cui biancore non mi attirava particolarmente, per dirla tutta mi dava disturbo e inquietudine. Non sono mai riuscito a bere il latte bianco, lo stesso odore, se non c’era del caffè mescolato a esso, o del cioccolato, lo trovavo nauseante; in genere non mangio formaggi, tranne il grana che devo dire mi piace parecchio (il suo colore giallognolo – ma la parola grana indica anche una varietà di rosso – e quel modo di rompersi a scaglie lo trovo gradevole per i miei gusti, nella consistenza desiderabile e gratificante; è forte la malinconia che suscita arrivare in prossimità della crosta) e qualche mozzarella, se condita con olio e origano e mescolata a pomodori in pezzi. Mi piace il sugo prima di tutto perché è rosso.
In quel 1990, in un certo qual modo, fui obbligato a mettere da parte la pittura; fu il mio corpo a pormi l’alt.
Provenivo da alcuni anni d’intenso lavoro, la seconda metà del 1986, il 1987, l’88, l’89 e i primi due mesi dell’anno successivo. Potevo scrivere “dalla seconda metà del 1986 ai primi due mesi del ’90”, ma così facendo avrei tolto importanza e senso, unicità a ogni singolo irripetibile periodo. Fatti i conti, dunque, un quadriennio. Nel quale vennero fuori temi che ripresi più volte negli anni che seguirono: i gatti (volti di gatto con corpi “pittorici” umani), le isole (barche che smettendo di viaggiare mettevano radici), le arance azzurre (il sé e il suo contrario, uniti dalla complementarità dei colori), i pranzi d’artista, con piatti colmi di tubi spremuti; i frutti appassiti (il tempo giocoliere della materia), Cactus (personaggi fatti di pale di ficodindia in costruzioni corporee “spontaneamente” cubiste), le conchiglie (o brocchiglie, brocche e conchiglie, conchiglie con manici, beni culturali, contenitori di speranze, gocce fossili), le tele (il piacere di dipingere l’immagine del supporto pittorico; tela dipinta su tela, tela su tela dipinta, verità e menzogna accostate, poste in un luogo nel quale vigeva l’intercambiabilità tra sopra e sotto, tra realtà e rappresentazione).

Di tanti quadri, tra tutti quelli che in quel lungo lasso di tempo portai a compimento, non mi rimasero neanche le fotografie, e tendo a rimuoverne anche il ricordo. Non ho idea di dove quei dipinti siano, che fine abbiano fatto, in quale voragine, se esistono ancora, si trovino adesso.
Dopo i primi mesi dell’ultimo anno con lo zero finale prima dell’anno di Dracula che fu, a distanza quindi di un decennio, il duemila – la fine di un millennio e l’inizio del seguente portarono il ritorno pieno alla pittura: mi arrivò la chiamata del Conte dai canini come i miei lunghi e appuntiti, proiettati però verso il basso i suoi, spostati in alto i miei –, dopo i primi mesi del 1990, stavo dicendo, gli occhi cominciarono a non reggere più il ritmo cui li avevo in precedenza e fino ad allora sottoposti; dei quadri dipingevo financo le cornici, per il puro piacere di mescolare, mettere e spandere il colore e di sentirne la pasta sotto le mani; in quegli anni stavo più dentro lo studio, tutti i giorni fino a sera tardi, che a casa. Era, il luogo in cui lavoravo e dove mi sentivo perfettamente a mio agio, un appartamento a primo piano, silenzioso e di pomeriggio assolato, con un lungo balcone che dava su un cortile, sia nel lato corto sia in quello lungo, accompagnando la sequenza delle stanze. La proprietaria si chiamava Ernestina e abitava in un appartamento uguale a piano terra, una donna con uno straordinario e rilassato modo di lasciar scorrere la vita.
Ci stetti quasi dieci anni, fino a metà 2006, in quello studio situato al numero 4 di via Colombo, una strada che cominciava e finiva lì, tra piazza Mazzini (piazzetta dei bagni), via Pellizzari e via Giulia, lunga una ventina di metri con appena tre numeri civici, 4, 6, 8. Sembrava tanto larga quanto lunga. Oggi quei due appartamenti non esistono più, al loro posto, varcato il portone che è rimasto tale e quale, superato un breve passaggio sotto l’abitazione che dà sulla strada, dopo il cortile si alzano cinque monolocali. Dunque gli occhi, di essi stavo parlando. Di nuovo fastidi, non come quelli dei primi anni ottanta (da allora, per la fotocoagulazione di un certo numero di vasi sanguigni, con l’occhio sinistro vedo meno e con toni azzurrati, mentre con il destro ho una visione normale, per quanto possa esserla, adesso, quella di un miope sessantunenne), ma di altra natura. Dopo un tempo breve di pittura, nell’ordine di poche decine di minuti, cominciavano a stancarsi, rendendomi impossibile, nonostante l’ostinato impegno a continuare, riuscire a farlo; s’incrociavano, gli occhi, costringendomi a smettere con sempre maggiore frequenza. Dicono che alla fine di una traversata in un luogo desertico, trovata l’acqua che ovviamente in posti di quel tipo non abbonda, non bisogna berne tanta subito, ma a più riprese, con delle pause che ne permettano una normale assimilazione.
Stare in un ambiente saturo di medium, inoltre, in particolare acqua ragia, trementina, poi vernici, solventi ed essenze varie, cominciavo a sentirlo non più uguale a un piacere (mandare giù con il respiro queste sostanze a pieni polmoni quasi che il profumo che da essenze volatili e oli proveniva fosse aria pura di montagna) ma come una sofferenza. Con quell’odore diventato acidulo, pungente alle narici quando mescolato ai pigmenti, e che aumentava via via che i colori si asciugavano – raggiungendo il picco tre/quattro giorni dopo la stesura iniziale – abbattendo, nella disperazione, il mio arroccamento incredulo di guerriero divenuto fragile come cristallo, e avendo facile gioco nel debellare le mie forze che si opponevano a quella che ormai sentivo come un’inaccettabile evidenza. I più fastidiosi erano i colori scuri e i bruni, fino alla terra di Siena bruciata dalla quale emanava un forte olezzo di ferro e ruggine, penetrante, insopportabile! quanto la capacità di tingere di questo grandioso colore anche in dosi minime. Odori che prima non mi disturbavano affatto, anzi trovavo gradevoli, tanto da inebriarmi quando al mattino aprivo la porta dello studio.

Dopo aver dipinto, tra gennaio e febbraio del ’90, un discreto numero di quadri con gatti su tele medio-grandi – se faccio bene i conti erano una quindicina (altri, forse quattro o cinque, rimasero a metà strada e li utilizzai, anni più tardi, cancellandone prima lo strato pittorico, come tele per nuovi dipinti), l’ultimo dei quali con un convulso litigio di gatti che avveniva contro un cielo saturo d’azzurro –, decisi di smettere.
Orientai l’interesse all’indirizzo della materia da manipolare, verso un territorio non esclusivamente visivo, tattile per ciechi e scevro di forti odori per agitati figuri affetti da iperolfatto: il territorio della scultura. Nulla a che vedere con l’incomprensibile “Territorio dell’architettura” di Gregotti dei lontani anni universitari.
Ero un armigero disarmato. Mi si voltavano contro gli occhi e dovevo tenere a distanza le materie coloranti, quanto meno quelle che appartenevano alla famiglia degli oli, che erano poi le più versatili.
I primi materiali che mi vennero in mente furono l’argilla e il legno. La prima per arance azzurre di terracotta nel loro rapporto con il mare, ma di queste mi occuperò in occasione di un’esposizione che ad esse intendo dedicare in un prossimo futuro. E il legno per delle sculture che avrebbero riguardato il cavallo in senso lato, in un collegamento lineare e finestrato, come il claustrofobico corridoio di una scuola in una fila colpita dalle luci e le ombre della sequenza di finestre sbarrate, che andava dall’equestre quadrupede al bipede cavalletto di faggio (che per la vetrina di un negozio – del quale disegnai e realizzai l’arredamento fino al più piccolo particolare seguendo Modulo4 – avevo dipinto di bianco, e tale rimase) passando per ippocampi, cavallette, onde e, naturalmente, ruote che col cavallo avevano una certa attinenza, come ausilio necessario per trasporti in genere. Ma, ancor di più che a esso, la ruota era vicina a un oggetto che col cavallo aveva tanto da spartire e che ora significava riposo, rilassatezza, inoperatività e la forza creativa che da essi stava per uscire: il dondolo.
Il galoppare del tempo amputa man mano pezzi di gioventù, forza, potenza, sveltezza, acume; voglia. In una orchestrata partitura di rumor di zoccoli.
La parola dondolo non mi è mai piaciuta.
Ho sempre cercato un termine che potesse sostituirla senza mai trovarne uno soddisfacente.
Dondolo. Trovavo e trovo il suono di questa parola freddamente metallico anziché morbido e legnoso. È una parola diabetica, con quell’ibrida pronuncia che vorrebbe essere onomatopeica. L’accostamento a onde smorzava l’avversione viscerale che provavo nei suoi confronti, spostando la singhiozzante cadenza di quel vocabolo in una tutto sommato accettabile molle nenia dalle sfumature meno urticanti del puerile balbettio delle due sillabe simili iniziali. Onde a dondolo; non era male come suono, nell’insieme scorreva senza intoppi o rifiuto. Il sapido sapore di onde leniva lo scampanio disturbante di don-do, attutiva il conato delle tre o e l’acidosi che la sillaba finale apportava.

In qualche scultura con i dondoli usai non solo il legno ma anche la creta, per fare l’ippocampo come traccia premendolo su di essa e lasciandola cruda. Una scultura la feci inserendo dell’argilla all’interno di un sottovaso circolare del diametro di trentacinque centimetri o poco più, sulla forma così ottenuta pressai una ruota di legno che avevo fatto in precedenza utilizzando un telaio tondo da ricamo a macchina (il cosiddetto punto cordoncino) per l’esterno, del legno piatto di balsa per i raggi e l’anello di un bastone di tenda per mozzo. La ruota la inchiodai in un punto alla terracotta, facendo coincidere questo con la sua impronta e lasciando la ruota sollevata dal lato opposto con un’inclinazione di circa trenta gradi. All’interno della scultura che somigliava a una conchiglia bivalve, a un’ostrica semiaperta, misi un piccolo dondolo di legno azzurro. La forma d’argilla che avevo utilizzato, piena all’interno, si ruppe in più pezzi durante la cottura, fui costretto così, prima di dipingerla (di un colore simile a quello della terracotta) ad incollarla per riportarla alla sua interezza. Durante questa fase, nella quale mi sembrava di vestire i panni non miei di restauratore – preferisco distruggere e rifare più che restaurare –, nel mettere insieme i vari pezzi mi accorsi che il dondolo altro non era che un tratto, la sezione di una ruota. Proprio così, era chiaro, il dondolo della ruota era una parte, da essa staccatasi per volontà propria – coraggioso scatto di emancipazione ed encomiabile voglia d’indipendenza – oppure a seguito di un trauma. E quel suo andare avanti, quasi a capitombolare, per poi retrocedere mettendo in calma l’ansia, misurava l’intervento di ritorno per fermare, forse rallentare, addirittura portare indietro, con un espediente, l’avanzamento della ruota angosciosa del tempo. Poteva anche essere, il dondolo, la parte iniziale di una ruota che cominciava a formarsi; e c’era sicuramente più allegria e magari pertinenza a pensarla così. Se, cioè, riguardava la fase iniziale e non calante, per cui finale e triste, di tutto ciò che in limitato periodo, per tentativi, e ballando con le onde sul ponte di una nave con i motori accesi, si sviluppa e cresce in attesa di partire per una prova di ruota. Con il cambio innovativo da “e” a “o”, da ferma, che tristezza! a forma, quale joie de vivre! Con le parole può accadere, non c’è magia. La e è di per sé più di un dondolo, e, per questo, inno alla materia – viva la vita –, ed è anche poco meno di una ruota. La o è già una ruota, tendente allo zero. Nascita, esistenza e morte. E nulla più.
Ecco, le parole. Il dondolo: questa parola ha un suono che mi infastidiva in passato e mi irrita ancora oggi, sa di trastullo finto, di negozi pieni di tondeggiante plastica colorata fino all’eccesso, repellente nella forma. Sa di asfissianti nutrici, tutte dedite ad aggiungere maniacalmente grammi a esseri oltremodo panciuti, mettendo questo argomento come principale sul tavolo degli incontri programmatici con affiliate, anch’esse d’identico ruolo, appartenenti al club delle esistenziali riflessioni.
Oggetti invadenti, quindi, e parola che con la stessa semitonda smanceria, con il simile sovraccarico verso li indica e ad essi assomiglia; oggetti d’azzardi cromatici, che sono stati in grado, senza pudore, di soppiantare, con la loro gracchiante incombenza, la cartapesta e il legno leggero, imbarcato, fessurato, della fantastica e onirica, galoppante e competitiva infanzia. Di zittire il suono di prime prove creative fatte con pochi mezzi e interminabili spostamenti ad opera di fuggitivi per vocazione, volatili ronzanti veloci perché insetti, per principio ribelli.
Misi a frutto la stanchezza e ne feci materia di scultura, come marionette in un ellittico palco in sistemi di ruote distese e stirate, cover di ruvide tinture preistoriche su prove di viaggi e prove di sculture. Così voglio chiamare i dondoli: Prove. Non c’è niente di definitivo in una prova, dipende da come la si guarda, la differenza sta nel prenderla come apertura o come chiusura, inizio o statica compiutezza. Con un bell’aspetto dal brutto nome proprio. Venticinque anni fa provai a ricominciare. Ci riuscii.
Ma potrei anche chiamarli donod, don-nod, la cadenza del palindromo non è melliflua, il suono non è ingannevolmente zuccherino e grassoccio, obeso come quello di dondolo, è più duro, lapideo e deciso. Donod mi sembra più indicato, una sezione di ruota non prosegue, arrivata a un certo punto torna indietro, don-nod. No, non mi piace; donod mi ricorda dono, e questa parola ha, nel caso in questione, troppe contaminazioni di trascendenza perché possa uscirne indenne, il cosiddetto dono dello spirito che chiede in cambio la sparizione della ragione e l’atrofia del cervello. Hold on potrebbe andare bene; hold on, hold on. Suono e senso hanno un’accettabile corrispondenza, una bastevole vicinanza. Poi mi ricorda una canzone di Peter Gabriel, e questa a sua volta mi ricorda un bel periodo.
Ho deciso: annullo dondolo, prova di ruota, donod, hold on. Chiamerò la sezione di una ruota “Immanente”. Le sculture e i dipinti dove ad essa la ruota e i cavalli sono affiancati le chiamerò ruota immanente, cavallo immanente, ippocampo immanente, cavalletta immanente, cavalletto immanente, onde immanenti. Im-ma-nen-te, con sillabe ondeggianti. Immanente, l’oscillazione prenatale che accomuna i mammiferi, bipedi umani compresi.

Un quarto di secolo fa, cominciando quasi da asta e punto, ripresi la pittura. Come quando, tanti anni prima e tanti da non riuscire più a contarli anni or sono, su quaderni a quadretti coperti di nero, a malapena tenuti da venature antiscivolo in rilievo di piani di legno inclinati, scheggiati e tinti di terra verde, imparai a scrivere disegnando.
Quella terapia di rieducazione a ciò che fino a poco tempo prima facevo con allegria e facilità, ebbe per nome “Arance e paesaggio padano, marino, glaciale”. Su cartoni telati 25x35 o 30x40 centimetri con preparazione universale (questa era la dicitura, per me in pratica significava imprimitura inodore) e colori a tempera, con l’olio che utilizzavo per trasparenti velature solo dove non potevo farne a meno. Proseguii poi su alcune tele con arance azzurre fissate a sostegni in saliscendi musicali, in due di quelle tele dipinsi anche dei gatti, e una, con un solo frutto, rimase incompiuta; quest’ultima la ripresi undici anni dopo, nel 2002, e divenne il primo quadro di “Ercole, Amleto e Don Chisciotte” che in seguito aprì la strada a Frankenstein. Dopo un gruppo di autoritratti fu la volta di “Tavolozza, tavolozza!” e, a partire dall’anno successivo, il 1992, altri passi di riabilitazione alla pittura si chiamarono L’uva passa e va, Atlante, i frutti nelle nicchie, Cavalli a dondolo. Si chiamarono poi Feliscatus I, a olio su tavole e truciolati – trovati qui e là già tagliati in varie misure – e cartoni: quadri (autoritratti di verifica dello stato del volto del pittore) dipinti velocemente, con una spessa quantità di materia, tenendomi a distanza di sicurezza da essi. Ci furono Feliscatus II e III, di nuovo a tempera su cartone telato o tela sintetica 20x30 centimetri, quasi un ripiegamento lirico. Dopo, cimento di massimo impegno, alcuni nudi rossi. Ancora i gatti e la storia dell’arte: un ritorno, dopo più di un decennio (i primi li avevo dipinti tra la primavera e l’estate del 1986), in parte dovuto all’incontro con Marika Lion che conobbi nella sua galleria di via Borgonuovo a Milano, anche le miniature su rame nacquero in quel periodo. E Feliscatus IV, nel 1998, su cartone di scatole aperte e distese: i polittici.
Nel 1990 c’era stato un fugace ritorno alla pittura. In agosto. Pittura di tele con misure che andavano da 60x70 a 70x80 centimetri, e due tavole più piccole. Con colore a olio, all’aperto, anche nel cortile dello studio che avevo allora, sulla tela poggiata al tavolo di ferro che lì si trovava, o per terra, dipinsi cieli e mari azzurri, grigi, verdi. Gli stessi colori che avevo visto, a metà febbraio di quell’anno, dall’oblò dell’aereo che da Milano mi portava in Sicilia per la morte di mia madre. Quando le toccai la fronte la trovai dura e fredda come terracotta.
Feliscatus