Feliscatus – T.R.I.S., The rest is silence

Informazioni Evento

Luogo
11DREAMS - ART GALLERY
Via Rinarolo 11/c, Tortona, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

dal mercoledì alla domenica 16 – 19

Vernissage
03/04/2016
Artisti
Feliscatus
Generi
arte contemporanea, personale

Trenta sono i dipinti che compongono il corpo centrale di questa mostra.

Comunicato stampa

Gruppi di scogli sparsi e un lembo di spiaggia danno il “Chi è là?”, nel secondo e terzo dipinto, alla rappresentazione. Un sole velato, nel terzo, quarto e quinto cartone, non modifica la statica e uniforme illuminazione della scena pronta all’uso.
Trenta sono i dipinti che compongono il corpo centrale di questa mostra, ma non per questo, per la quantità, cioè, e la centralità, più importanti degli altri due quadri che la completano, ognuno dei quali è corpo a sé, iniziale uno e diciamo pure finale (perché epilogo, anche se nell’ordine penultimo) l’altro.
Insieme di trenta oli su cartone che espongo nella sua interezza per la prima volta; saltuariamente qualcuno di essi è stato incluso in esposizioni collettive. Di questi lavori, in gran parte della dimensione di 15 x 20 centimetri (alcuni differiscono di qualche centimetro, in più o in meno in lunghezza, in meno in altezza), ventinove hanno lo stesso titolo: Ius res, affiancato da un numero progressivo romano. Le due parole latine non vanno lette come tali (prese singolarmente potrebbero anche avere una certa coerenza con il tema, con l’iter pittorico), ma in realtà sono nate come l’acronimo anagrammato – meno una e accentata, è come essere, che rimane a vagare nell’aria e si sposta di quadro in quadro – del nome dell’ultimo cartone dal carattere indiscutibilmente paesaggistico (all’inizio), romantico, scultoreo in potenza, marino, non privo di un’irta e notturna, emaciata conformazione, incisa, modellata, picchiettata, frastagliata da luce radente: Il resto è soltanto un eterno silenzio. Il trentesimo dipinto di paesaggio e trentaduesimo nel totale delle opere, l’unico in verticale tra quelli che compongono la maggior parte che è priva di figure, e, sia pure di dimensioni miniaturistiche, 15 x 11,5 centimetri, si rivela come chiave di lettura di tutto il percorso su Amleto.
Dunque, tornando agli altri due quadri, il primo (stamattina, due marzo, sento il rumore della penna che passa, scorre, scrive, sottolinea o cancella sulla carta, sul foglio nella cui pagina ora verso è stampata la prima parte della presentazione di “Sette vite, Come le comete”), che si chiama Hamlet, e, il penultimo, T.R.I.S., acronimo di The rest is silence, che dà il titolo alla mostra, epilogo, atto conclusivo, carneficina e, appunto, silenzio. Questi due dipinti sono su tela, rispettivamente 80 x 80 e 30 x 24 centimetri. La prima versione di Hamlet era anch’essa su cartone – il cartoncuoio per la precisione, così chiamato, penso, per la sua struttura, la compattezza, la flessibilità, lo spessore variabile che sembrava evidenziarne una natura organica, e, soprattutto, il colore – di dimensioni ridotte, 19 x 20 centimetri, rispetto alla seconda versione in tela, ma era ugualmente un dipinto compiuto, non un bozzetto preparatorio, e aveva per nome Ius res I.
L’anno di esecuzione dei cartoni è il 1995. Le tele sono state dipinte nel 2002 su quadri preesistenti. Una era la tela sottostante (con annessa cornice) di uno Sviluppo plastico astratto con alberi dell’84, la stesura uniforme verde scuro che presentava era la vera e propria superficie pittorica, con uno strato di vernice lucida; nell’altra c’era una faccia di gatto del 1986, che nel suo impianto di massima, ma non nell’espressione, è rimasta. Il centro della scena del dipinto T.R.I.S. è dominato da un muso felino posto di tre quarti; a un lato di questo, e parallelamente ad esso, spunta con lumeggiature bianche un cranio umano girato nella stessa direzione, al quale quattro foglie di limone secche e accartocciate coprono parte dell’osso frontale, mettendone ancor più in ombra l’orbita oculare destra. Il cranio è sormontato da un ippocampo leggermente inclinato in avanti. All’altro lato del viso felino – per la cui posizione, come ho già detto, ho ripercorso nel 2002 scelte che erano già avvenute nel 1986 –, e in direzione a questo perpendicolare, prende posto un teschio felino con una noce incastonata, a mo’ di moneta, o forse gemma, in una delle cavità orbitarie. Sopra il teschio, una cavalletta si muove verso una rana poggiata, in posizione mediana, in cima alla testa felina. Gli occhi di gatto puntano allarmati chi sta assistendo all’epilogo della tragedia. Sotto la testa e i teschi, in rapporto ma non in proporzione con essi, come se, pur essendo a questi collegato, ne fosse distante, il busto di una figura coperto da un panneggio rosso doppiamente annodato sul davanti. Dall’indumento emergono le mani, una da un lato e una dall’altro, una con il palmo rivolto verso l’alto, l’altra con l’indice diretto verso l’esterno del dipinto, come lo spadaccino che in un duello ha per arma il dito che accusa e scaccia, elimina allontanando. In alto, vicino al bordo superiore della tela, una fila di trentadue linguette bianche e altrettante, speculari e più scure, a poca distanza da esse, rivolte verso il basso come un notturno riflesso nell’acqua.

All’inizio, il corpo centrale dei dipinti si presenta con una frammentata pietrificazione di coniche oppure distese e allungate, ma anche bene o male incolonnate forme irregolari e bitorzolute scure o arricciate laviche, scelte, anche nella posizione che occupano, secondo un metodo compositivo di calcolo delle distanze prospettiche e un’organizzazione degli spazi di separazione e collegamento tra le varie forme; posizionamento che può essere chiamato teatrale scenico. Alcune di queste affioranti rocce di varie fogge, quelle più lontane perciò un po’ più deboli di colore e meno definite nel volume, possono apparire fuoriuscite dall’acqua a sprazzi e pure con brio, assimilabili a residui verbali, letterari e d’immagini filmiche, giustappunto fossili, memori di un ammirato consenso diretto a uno sguardo restio ad accettarlo e distante, latitante, al plauso indifferente, perché l’approvazione frena, inorgoglisce, ammansisce, qualche volta persino nuoce. Fa cuori di argilla e produce interlocutori non propensi ad uno scontro fruttifero.
Sono forme fossili, queste, che furono faville di giorni decaduti nei quali avvenne chissacché, e zig-zag di lampi di cellulosa e celluloide approntati da spettacolari soffioni in una nebbiosa, fuligginosa, mummificata, monocroma scena d’altri tempi. Materia d’archivio resasi disponibile, ora, per ciò che sta per cominciare, nel contenente che diverrà contenuto, e così di nuovo, in una cercata e più che voluta alternanza di vissuto teatrale ed esperienza reale che più in là condurrà ad una morte recitata, instancabilmente ripetuta e infine postuma, e, finché la struttura della materia sarà questa – solo materia e null’altro – pronta per il nuovo uso.
Perciò poi ci sarà posto per altri, anch’essi fatti di movimento di materia, di carta, di recitazione, di possesso di un ruolo, forse di pittura terrosa, oppure di ghiaccio bianco in balia a correnti carezzevoli che lo muteranno in quell’acqua che toccando scioglie.
Sarà uno dei corpi posti in lontananza, presso l’orizzonte basso, un particolare a prima vista accessorio, di contorno, di non grande rilievo, in un cartone superiore ad altri in lunghezza, e con una nave che va per il suo mare spinta da una luce che sembra solo a lei indirizzata, in quel cartone dipinto a due terzi di tutto il tragitto, ad avere uno sviluppo a più riprese, di forma e di sostanza, meglio ancora un processo di svelamento d’indole e fisionomia: ovvio che la prima, di pietra, dovrà tacere, forti contrasti di luci e ombre su rilievi e depressioni parleranno con e per la seconda.
Il mare è tuttavia calmo in ogni dipinto, anche nell’ispessimento della tensione all’inscurirsi dei colori, e, fino a metà del cammino pittorico, azzurro; il mare è sempre e comunque calmo, qualunque cosa avvenga, per tutto il percorso di T.R.I.S.; la miseria degli eventi umani non può scomporre il mare.
A livello di proporzioni naturali, con armi talora da natura a natura pari, scambi magari non affabili ma simbiotici nella materia che tutto abbraccia, anche in particolari condizioni di evidente opposizione, questo una volta accadeva, ed era cosa inconfutabile perché trattavasi di parti di un tutto, anche nei diverbi che fino a un certo punto, secondo l’impegno, potevano essere appianati, riparati dalla dipendenza esistente, per la verità più di una parte che dall’altra. Perché la posizione eretta e la mano prensile erano ancora natura, quando, chi scriveva di Amleto, recitava e faceva recitare storie e comportamenti abnormi, violenti e criminali, ancora contenuti da icone animali-umane, sapendo di proiettare e trasmettere le architetture di parole in un tempo a venire non immaginato così come è poi diventato, un tempo e un luogo dove le tracce nefaste del passaggio dei bipedi “intelligenti” non si possono più cancellare, le conseguenze sono irreversibili e i problemi da esse generate non più risolvibili.
La natura era ancora in grado di restare fuori da modi arroganti e bisogni superflui, incapaci, allora, di ammaccarla, tramortirla, ferirla mortalmente.
Nel dipinto T.R.I.S., che è il penultimo, tutto si sconquassa, scombina tempi e cambia proporzioni, e in quello seguente, quindi l’ultimo, il mare si capovolge, la natura va sottosopra, il paesaggio cade a precipizio, si spacca in due, e l’umanità residua, benché abbia sembianze per così dire animali, è inanimata, pietrificata, ritrae il misfatto compiuto, è già morta, perciò inesistente.
Bernardo, Marcello, Orazio, Polonio, Ofelia, Rosencrantz e Guildenstern? Comparse. Gli attori girovaghi? Il teatro, la finzione, l’innata spinta a recitare, progredire, mutare, essere ciò che non si è; il teatro è anche pittura, rappresentazione, materie coloranti, linee e forme, in un impasto che mescola insieme, nel modo proprio dell’immaginazione, componenti dissimili in una unità eterogenea, mettendo in moto l’arte della conoscenza e la vita come piacere del fare e della scoperta. Claudio, Gertrude, Laerte, Fortebraccio: comparse.
Gli interventi di mano umana sono invasivi, altamente distruttivi, devastanti, catastrofici oggi. E possono far sparire l’unico luogo vero, che è vero perché esiste ed esisterebbe anche se gli umani non ci fossero; perché reale, opposto all’illusione di un altro mondo (eterno!) futuro, alternativo, irreale, speranza fittizia e menzognera, manipolata, dalla quale la pulsione distruttiva prende motivo, giustificazione e appoggio.
In quattrocento anni Amleto ha visto di tutto, conservando la sua integrità di verità possibile, di fatti inventati, accaduti o che possono accadere. Domani non ci sarà un qualsiasi Fortebraccio a chiedere dove sia il carnaio, o un Orazio a rispondere, né altri a onorare i morti blasonati e non. Né alcuna rappresentazione. Nessuno ad aspettare di seguirla. Perché dopo il disastro rimarranno, se rimarranno, solo batteri. Che in tempi lunghi, milioni di anni, forse diventeranno vegetazione e poi animali, e forse animali a due zampe con un cervello sviluppato, in cammino, questi ultimi, verso una nuova idea di aldilà e quindi verso una nuova distruzione.

L’allestimento del corpo centrale di Hamlet (il primo nome, il più ovvio, della totalità dei dipinti poi sostituito da T.R.I.S.), è pertanto inizialmente duttile, poliglotta, aperto a più possibilità. L’incipit è pronto da prendere per qualsiasi storia. Scenografie non ancora pelagiche e, in un tutt’uno, attori plastici la cui mimica muove la parola in questo o quell’altro verso, per consolidata eredità di un antico mestiere creativo per modo di porsi, modulazione e pause, impennate lessicali e diluizioni coloristiche; un insieme di ruoli principali e di comparse che prima io, pittore, attento ad altro, per necessità di testa, allora, e anche di mani, utilizzavo per fondale e quinte. Un gruppo di forme non più dipendente e subordinato ma con altero rango, protagonista avviato, senza indecisione o paura, verso un futuro che si sa già da troncare.
Ma, immediatamente dopo, tutto prende un’altra piega. Un duplice, simile inizio, un dipinto all’altro somigliante, perché entrambi, a vicenda, si possano caricare di rinnovata considerazione che, accentandola, aumenti passando di mano, è vero, è già porre all’erta, lo scatto di capo e il colpo di coda. Al due seguito dal tre – per l’uno il posto è vacante perché ancora da venire – subentra, quando l’uno diventa il primo della lunga fila di diritti e cose, una glaciazione progressiva. La raggelata ambientazione disordina lo stato di sopportabili e non visibili punture di freddo, sconvolge la rassegnata, solitaria, tentennante, sfilacciata condizione tesa tra insensibile torpore e dolorosa veglia.
Il cielo è grigio. Uno o più iceberg si muovono nell’acqua, internamente sostenuti dal ghiaccio che li costituisce, lì dove c’è, a tenerne insieme i lati, la necessità di un’aspirazione estetica, che sia, quest’ultima, altresì evidente attraverso una sfaccettata costruzione dinamica i cui contrappunti motori portino e guidino gli iceberg in precise direzioni, in calcolate rotte, tanto più palesi quanto più in essi è riconoscibile la forma di una nave; la loro ascendenza porta il pensiero a Friedrich prima e a Cactus poi, nei dipinti di natura dell’uno e nella pittura zoomorfa sull’altro.
Il luogo fisico, romantico nel corretto e perduto rapporto uomo-natura, che sta all’origine dei dipinti dell’artista tedesco, mediato dalla pittura in cui si muove il personaggio Cactus, va cercato, tra le periodiche scadenze del tempo – in un tempo attuale solo nella memoria –, in mezzo alla bruma che il Po attraversa e nella terra dalla quale la nebbia a una certa ora si alza, aumentando, in questa fase di apertura e ritorno alla luce da diffusa a diretta, il senso di stupore e possesso di ciò che sta intorno cui si sa di appartenere.
Lì, sui luoghi dove i cactosauri poggiano i loro piedi o zampe che dir si voglia, e goffamente da bipedi avanzano, essi col passare degli anni impareranno a camminare e poi a correre, e a parlare, cresciuti con la terribilità sublime del paesaggio mentale lavico e padano, incolore grigio di vegetazione, terra d’ombra di acqua e pietra, bianco umido di tozze ossa tumefatte e di sfregiato gesso; giallo di zolfo.
Quindi, seguendo il prologo che ha preparato il “terreno”, la storia qui dipinta di Amleto comincia con una glaciazione; diurna, illuminata da un sole opalino e velato. Continua con paesaggi di isole-iceberg, qualcuna viaggiante, sul mare liscio come una tavola; si dice pure, con un termine appropriato, come olio, pertinente similitudine questa, con maggiore “riflessione” (ma l’olio mediterraneo quando è freddo ha meno trasparenza). Per proseguire poi con un’isola-nave che, una volta vulcanica di costituzione e notturna nelle luci (quando, nel settembre del 1988, per mano sinistra e non destra, aveva appena iniziato il viaggio di pittura, partendo dal periplo reale di Capraia dell’anno prima e da un passaggio immaginato lungo le coste siciliane con qualche puntata all’interno dell’isola, risalendo i fiumi come pesci migratori e acrobati per caricare pale spinose e gatti randagi), ritrovo, nei dipinti che di Amleto vogliono parlare, con un colore grigio azzurro raggelato. Ricondurre però la nave-iceberg, o le navi di pietra dai colori più caldi (o più cupi) presenti lungo il percorso pittorico, al solo viaggio di Amleto verso l’Inghilterra, sarebbe come limitarsi a considerare l’abbalatata pavimentazione del ponte, peraltro nei profili delle navi non visibile, o l’ininfluente inclinazione di uno scafo di roccia.
Man mano i colori tornano terrosi, propri di scogli in attesa di far la loro parte di corpi stanziali o viaggianti, e disegnano forme con sembianze di grinzosi acini d’uva appassiti, che più avanti perdono il legame col raspo nel quale si raggruppano, per affidarsi, ognuno separato dagli altri, alla corrente o precipitare in solitudine negli abissi; oppure avviarsi verso un graduale discioglimento nell’acqua densa e lattescente, biancastra benché spennellata di ore serali o notturna.
Nell’ultimo scoglio “Il resto è soltanto un eterno silenzio” ho trovato il volto dello spettro di Amleto padre che cercavo. Ho capovolto il piccolo dipinto e ne ho coperto una metà. La metà rimasta l’ho copiata nel cartone prima, su una tela di ottanta centimetri per lato dopo; a questa metà ho accostato, dipingendola, la stessa ma speculare.
Mi sono così trovato davanti al fantasma del defunto re con tanto di corona. La forma era quella che avevo pensato, scorrendo con gli occhi la contrastata monocromia, ripercorrevo le premesse che fin lì mi avevano condotto, confermandone la giustezza con il ritorno circolare degli eventi, cause ed effetti, effetti e cause, negli spigoli vivi, nelle rughe e pieghe, negli incavi di ombre e tra le righe della potenza rocciosa. Di fattezze umane e animali mi parlava ciò che avevo di fronte, di materia terrestre e acquatica. E i cardini che cigolavano aprendo le ante della parola mi tenevano attento, facendo sì che essa diventasse di cartone, tela, colori, vernici, scale e scalini di chiari e scuri, in due mezze facce che ne componevano una di un re morto assassinato; apparizione perciò letteraria, filosofica, teatrale, tragica, pittorica, rocciosa e di natura, ragionata, modellata su un supporto da due cervelli sfalsati di secoli (la pagina scritta e una tela dipinta permettono questo tipo di sopravvivenza alla morte), quattro mani, l’acqua, il vento, il tempo di qualche anno o tuttalpiù quattrocento.
Feliscatus