Fernanda Fedi / Daniela Nenciulescu

Informazioni Evento

Luogo
QUINTOCORTILE
Viale Bligny 42, Milano, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

da martedì 12 a giovedì 14 aprile h 17-19
e poi su appuntamento fino al 22 aprile

Vernissage
11/04/2022

ore 18

Artisti
Daniela Nenciulescu, Fernanda Fedi
Generi
arte contemporanea, doppia personale

Mostra doppia personale: Fernanda Fedi: … dall’intelletto alla corporeità senziente Daniela Nenciulescu: Parco giochi.

Comunicato stampa

Fernanda Fedi presenta alcuni lavori storici degli anni 1985-89. Opere su carta di grandi dimensioni ed opere che affrontano il dualismo della trasparenza attraverso sovrapposizioni di scritture asemiche su carta e plexiglass.
Daniela Nenciulescu espone una sequenza di carte in strati sovrapposti dove interventi grafici e tagli di superfici si innestano su dettagli fotografici delle sue sculture o su particolari di utensili da lavoro.

Amedeo Anelli
I grigi di Fernanda Fedi: dall’intelletto alla corporeità senziente

«Il corpo è ciò che non solo sfugge alle mie intenzioni, ma anche mi precede nell’azione»
Paul Ricoeur
I primi anni Ottanta del Novecento sono un punto di raccordo fondamentale nel percorso artistico di Fernanda Fedi. L’Artista passa dal rigore strutturale, fatto di geometria, colore e luce – luce uniforme e diffusa secondo la lezione di Piero della Francesca e la rivisitazione di Antonio Calderara –, ad una ripetizione segnica insistita, in un “ostinato”, tale da far apparire questi segni come engrammi della mente, sigilli dell’inconscio. Un’urgenza di segno che pare affiorare sotto la spinta di una coazione a ripetere, e tende verso la scrittura, la scrittura di luce, la modularità scardinata dai suoi esiti geometrici. Il ponte “modulante” di questa operazione è costituito dalla serie di opere in grigio qui presentate. Mantenendo ed interiorizzando il tema della luce, si evidenzia la progressiva sparizione quindi del modulo geometrico, ridotto ad un quadrettato sempre più minimale, quadrettato invaso dalla presenza di “colature” di colore nella gamma generalmente dei rossi evocativi di dionisiaci effluvi sanguigni. Molti lavori titolano appunto Calligrammi dionisiaci o più precisamente Dioniso ha vinto, evocando la nota contrapposizione nietzschiana fra apollineo e dionisiaco. Il primo sentito come principio d’ordine di armonia delle forme mentre il secondo come spirito d’ebbrezza di esaltazione entusiastica priva di forma in quanto ordine, simmetria, ordinamento. Non a caso il seguito dei lavori della Fedi tenderanno sempre più ad essere in sé delle grandi partiture musicali di segni e di cifre: una musica muta per gli occhi, grandi rotoli del sé. È un imponente ritorno del lavoro della corporeità senziente e ctonia, sul rigore ideale ormai sentito come gabbia e riduzione: insomma una specie di via verso la liberazione. È questo un viaggio nell’interiorità della pittura in cui il segno ripetuto ed ossessivo diviene anche una sorta di memoria ancestrale, la mano danza un proprio percorso interiore, segue un proprio filo di Arianna e il pieno dei segni, il loro brulicare sulla dominante luminosa dei grigi, afferma una propria forza energetica eccedente e vitale. Questa forza eccedente si placherà nel futuro in un rigore più legato ai valori sensibili ed alle scritture, al fascino segnico, di un’araldica dell’ignoto e dell’alfabeto. Nei processi di tecnica interna e nella loro realizzazione in azioni ed opere si ha insomma il passaggio dai valori principalmente di ordine e numero dell’intelletto alla mètis, alla sapienza corporea, con il dispiegamento di tutte le sue astuzie e forze, con l’effrazione di ogni senso del limite verso il libero fluire delle forme-segni. Febbraio 2020

Anna Comino
A occhi chiusi

A volte guardi fuori dalla finestra. Sei sdraiato sul letto e vedi solo il cielo. Un cielo pieno di suoni, di rumori, di sensazioni. Ascolti le parole del vento, ti lasci trasportare, segui la corrente dell’immaginazione, perché sai che ci sono cose che si possono vedere solo a occhi chiusi.
Tra le pieghe di questa terra di confine, prendono corpo le carte a strati sovrapposti di Daniela Nenciulescu.
Basta un illusorio passaggio, una elaborata apertura per farsi risucchiare nel gorgo, nell’essenza pura del dettaglio. E’ il particolare (una vite, la punta del trapano, un motore, lo snodo di una scultura) riprodotto in una stampa scabra, dall’opacità disegnata, brutale nella sua essenzialità, che determina lo svilupparsi della componente espressiva. L’elemento narrativo iniziale è costituito dall’oggetto, che non viene privato in nessun modo del suo significato primigenio: rappresenta semplicemente sé stesso. Quando poi viene inquadrato nella fenditura praticata nel foglio superiore, un deciso segno grafico fonde le due superfici.
Parco giochi è un insieme di costruzioni rigorosamente bidimensionali nella realizzazione, dove un tratto conciso, istintivo, ipnotico spinge in un territorio complesso, in bilico tra forma e struttura.
Prima ancora che dagli occhi, è un sussulto che batte dentro e, rapido, si trasmette alla mano che con abili gesti abbozza segni a matita, a china, che poi si sfrangiano, si arrotolano, si distendono in un incalzante movimento che si sviluppa all’esterno dell’immagine e buca, letteralmente, il supporto.
Una selezione della sua esistenza plastica si affaccia alla superficie e invita a lasciarsi andare, a provare il vuoto nello stomaco che ogni bimbo sente quando volteggia sull’altalena o si lancia dallo scivolo o, ancora, con il cuore in gola e le palpebre serrate, si aggrappa saldamente alla giostra che gira e gira e gira.
Ed ecco che il prato sparisce, il cielo si cancella, le urla divertite dei compagni si spengono…..
Nel foglio Daniela Nenciulescu riesce a trasmettere quella gioia puramente fisica che sulla carta resta sì gioco, ma con una punta di nostalgia. Trova uno spazio diverso da quello a lei congeniale della scultura tridimensionale, per sentirsi libera di ondeggiare nell’oceano tumultuoso di uno stato d’animo contrastante, che vuole fuggire lontano, addentare la carta col segno così come, con la roditrice, aggrediva il metallo. E come prima, manca un preciso carattere progettuale. Il tratto procede di pari passo con il pensiero: lo asseconda, se ne fa interprete e, qualche volta, lo previene. Per usare le parole di Henry Miller, “la propria destinazione non è mai un luogo, ma un nuovo modo di vedere le cose”. Niente di più vicino al lavoro di selezione e rielaborazione messo in atto dall’artista. Le sculture ritornano in scena e, ancora una volta, si lasciano plasmare. Dalla matita, dal pennello, dai tagli. Si arricchiscono di inediti profili, si sollevano, si fanno ingabbiare, capovolgere e, spesso, amputare.
Le creature stralunate che ne emergono sono quasi tutte predisposte al volo, o in procinto di decollare: sfidando la gravità si trasformano in macchine volanti, stazioni orbitali, robot perlustratori, razzi interstellari. Ossia, mezzi di esplorazione di un universo pulsante.
Alcuni rudi, spartani, spigolosi, altri morbidi, tondeggianti, quasi leziosi. Come meteore, sono congelati nell’attimo, con una sorta di fermo-immagine che registra il preciso momento dell’attraversamento fissandolo sulla carta.
Tutto si modula nell’unica tonalità possibile: il nero. Puro e denso o delicato e rarefatto nelle sue mille varianti di grigio, per poi scontrarsi con il suo opposto, il bianco, che assorbe, attutisce e infine smorza.
I due strati consentono di lavorare in contemporanea sul doppio livello interpretativo: ciò che succede dentro e fuori le cavità praticate nella carta superiore.
All’interno delle capsule ritagliate i corpi saturi degli oggetti metallici sono assediati da ombre fitte che gli si annidano intorno, oppure emergono isolati nel nitore abbacinante del supporto. All’esterno aurore liquide e tramonti di cenere si stemperano fino a diventare nebulose illeggibili. Più oltre, il nulla. Antenne, molle, scie si consumano nel vuoto fino alla dissolvenza. Una sorta di dispersione prolungata dove, se l’eco fosse un effetto ottico, si percepirebbe il propagarsi del movimento circolare che si allontana fino a scomparire.
Parco giochi è un insieme di pagine ironicamente autoreferenziali, intense e leggere insieme. Fragili, gioiose, complesse, sentimentali, ardite, tormentate. Diversi sentire di quell’unico mood che rimbomba in sottofondo.
Ogni carta, autonoma e conclusa in sé, è parte anche del mondo creato per lei da Daniela Nenciulescu. Un territorio tutto da scoprire, aperto, dove la stessa artista ama sondare e sperimentare. La curiosità diventa esigenza, necessità. Da tradurre subito in immagine.
E così gli occhi diventano uno spiraglio sottile. Osservano e pensano. Poi si chiudono.
Allora, è subito pronto un nuovo foglio.
E una vocina sussurra: dai, ancora un altro giro!

In mostra alcuni lavori storici degli anni 1985-89 di Fernanda Fedi tra cui opere su carta di grandi dimensioni e opere su carta e plexiglass. Di Daniela Nenciulescu una sequenza di carte in strati sovrapposti in cui si innestano dettagli fotografici delle sue sculture o utensili di lavoro.