Filippo Manzini
Mostra personale
Comunicato stampa
Sono state le caratteristiche stesse dello spazio di Mars a indurre Filippo Manzini a realizzare un lavoro site-specific: un “cubo bianco” si ma irregolare, un poligono dai lati non uguali e dalle dimensioni limitate non poteva che attirare l’attenzione di un artista che sempre concepisce l’opera come un elemento rapportato ad uno spazio, e più lo spazio ha specificità particolari più diventa interessante. Manzini parte spesso dall’individuazione di luoghi, o dovremmo dire non-luoghi, presenti nell’ambito urbano che quasi non si notano per la loro accertata normalità, come l’arcata di un sottopassaggio, o il muro di qualsiasi strada. Lì inserisce, letteralmente, l’opera che può essere costituita da semplici listelli di legno o sbarre di ferro e li mette in tensione approfittando di intersizi, angoli, rilievi in cui infilare, su cui appoggiare gli elementi che da quel momento fanno struttura, fanno corpo con lo spazio. Si può dire che nascono dallo spazio e si risolvono nella tensione che creano, nella figura di equilibrio che diventano. Ogni opera diventa anche un atto performativo teso a disegnare una sorta di antropometria, perché il corpo e la sua energia interferiscono con la riuscita, cioè con l’equilibrio statico raggiunto.
Lo spazio di Mars ospita un intervento che proietta un ambiente virtuale nell’ambiente reale, partendo dalla sua morfologia. Una gabbia di listelli di ferro saldati fra loro disegna i lati disuguali di un volume simile nella irregolarità a quello dello spazio. Uno degli angoli si inserisce in un anfratto presente nell’ambiente, ma essendo di dimensioni minori l’inserzione non avviene e la struttura si appoggia, il suo corpo fa leva col muro e si sospende nello spazio, perfettamente bilanciata dal suo stesso peso. Essa si colloca in stato di quiete come dice Manzini, si adagia. Una quiete che è in realtà energia in potenza, una quiete tesa se cosi possiamo dire, un equilibrio creato dalle circostanze che del resto rimangono perfettamente visibili, chiare nei loro nessi reciproci.
Questo spazio “fantasma” dentro lo spazio reale, che si imparenta con quest’ultimo per via di irregolarità di figura geometrica, è poi visitabile, ci si può entrare, con le accortezze di chi non deve perturbare quello stato di quiete o di tensione “adagiata”; però lo spazio è abitabile. L’opera, abbiamo detto, è sempre anche una antropometria, la sua geometria non è assiomatica, parte dalle misure corporee dell’artista e chiama in causa il corpo di chi osserva o per meglio dire “vive”, potendo lo spettatore muoversi, la relazione fra l’intervento e lo spazio.
Giorgio Verzotti