Flavio Favelli – Afgacolor
Flavio Favelli, a partire dall’indagine sulla travagliata e ambigua storia dell’Afghanistan e dei suoi simboli, porta avanti l’esplorazione del ruolo sociale e culturale che gli oggetti di uso quotidiano assumono varcando la soglia dello spazio espositivo.
Comunicato stampa
Nel 1996 rimasi scosso dall’uccisione di Mohammad Najibullah, il toro di Kabul, Presidente dell’Afghanistan, evirato e appeso dai Talebani a un pilone scassato di cemento.
Nessuno si filava quei luoghi, le notizie erano poche, ma l’Afghanistan mi piaceva. Seguivo da tempo la sua storia travagliata e ambigua, e la sua bandiera, con quella striscia verde e nera e la moschea che assomigliava più a un baldacchino. I francobolli erano rari e artigianali e l’arrivo dei sovietici aveva portato un immaginario differente e intrigante nel paese islamico. Forse è stato proprio l’intreccio tra questi due stili a colpirmi: la grafica, l’architettura e l’immagine di un paese diviso tra nuovi ideali e costumi arcaici. E poi i tappeti rossi, rossi scuri e neri con motivi ottagonali netti e intensi, quasi severi, con qualche rametto e fiore, sempre nero e sempre rosso, quasi a ricordare uno stato di guerra ininterrotta durata mezzo secolo. Questo tempo marziale ha così segnato la trama dei tappeti, ormai caratterizzati dalla presenza di scene moderne con immagini belliche di fucili, carri armati, aerei prima della guerra con i sovietici e mappe, con contrasti veramente densi, ancora vergini dal filtro occidentale a cui Alighiero Boetti ci ha abituati.
Tutto questo è in fondo un viaggio psicologico, un mio modo per cercare di ri-creare luoghi e cose rincorse e inesistenti.
Se la mostra Afgacolor prende il nome da un’insegna trovata della marca di pellicole fotografiche Agfacolor, essa intende presentare i mie ultimi interessi che continuano, così sembrerebbe, a oscillare fra visioni private domestiche, oggetti tipicamente borghesi e sirene afgane.
Flavio Favelli