Francesco Carone – Nevermore
SpazioA è lieta di presentare, sabato 18 Novembre, 2023, la sesta mostra personale in galleria di FRANCESCO CARONE,Nevermore, curata da e con un testo di Alessandro Rabottini.
Comunicato stampa
SpazioA è lieta di presentare, sabato 18 Novembre, 2023, la sesta mostra personale in galleria di FRANCESCO CARONE, Nevermore, curata da e con un testo di Alessandro Rabottini.
Arredi di mancata consolazione
Al centro della galleria troneggia una macchia nera, lucida e precisa nei contorni. È una sorta di architettura autosufficiente, un fiore duro composto da tre soli, rigidi petali liscissimi. Un recesso misterioso eppure ospitale, un riparo elegante come i tre pianoforti a coda i cui coperchi sono serviti ad assemblarlo. Nevermore è il titolo che, a partire da quest’opera, si irradia all’intera mostra, come uno scongiuro e un rimpianto che rimbalzano tra le pareti, propagandosi all’infinito.
“Nevermore” (un’espressione ormai desueta che in inglese significa “mai più”) è l’unica, reiterata risposta che il protagonista del componimento poetico Il corvo riceve, durante un’inattesa visita notturna, da un corvo che picchietta alla sua porta. Pubblicato nel 1845 da Edgar Allan Poe, il poema inscena un dialogo ritmico e surreale tra quello che lo scrittore definisce un “uccello d’ebano” e un uomo dotato di una “triste immaginazione”: agli interrogativi di quest’ultimo sulle possibilità di riabbracciare l’amata e defunta Leonora, il corvo risponde sempre e soltanto con un insistito, desolante e perentorio “mai più”, nemmeno fosse un pappagallo che, inzuppatosi di tenebra, parla sotto mentite spoglie.
A partire da quest’allegoria gotica che, come un monito e una litania, scandisce il tema del trascorrere del tempo nella sua natura profonda di perdita definitiva e irreversibile, Francesco Carone costruisce una mostra dall’atmosfera raccolta come quella di una casa. Un interno illuminato da un bagliore notturno dove Carone raccoglie pochi oggetti, alcuni dei quali fabbricati, altri ottenuti a partire dal recupero e dalla manipolazione di cose dismesse, come il tessuto liso che ricopriva una tavola da biliardo e che ora ritroviamo impreziosito di foglia oro (Crocifissione, Mond); una bandiera italiana che ha sventolato fino a perdere il rosso, ora arricchita da una simbologia sconosciuta (E fu sera e fu mattina); uno sgabello non più utilizzabile a meno di non sedersi sulla sfera di ceramica nera che lo sormonta (Bulbo). Su questi oggetti, Carone sembra adoperarsi con una sorta di accanimento che è tanto terapeutico quanto poetico, rispondendo a un impulso di cui l’arte, soprattutto quella contemporanea, pare ritrovarsi spesso investita, ossia quello di sottrarre le cose all’oblio cui sono destinate.
Nelle loro dimensioni semi-ambientali, altre opere svolgono quasi la funzione di coordinate spaziali per questo interno domestico solitario e diradato: possiamo immaginare di accovacciarci all’interno di quell’architettura parziale costituita da Nevermore, quasi fosse un pensatoio privo di consolazione filosofica, o cercare un calore che non troveremo mai gravitando attorno a una fiamma fissa e buia, posta ai piedi di un’asta di ottone che definisce l’altezza dello spazio (Dedalo). Un volume di cemento (Cura della follia), anch’esso poggiato a terra, pare evocare la presenza familiare della cassa di un impianto stereo, se non fosse anch’essa una cosa sorda e inerte come il materiale che ne paralizza le vibrazioni. È solo uno sguardo più attento quello che ci permette di notare come la fisionomia di questo “strumento” silente sia il prodotto di uno scavo scultoreo e non di un assemblaggio tecnologico: la forma di un imbuto per alimenti ha inciso in questo parallelepipedo di cemento l’impressione di un’apertura che non emette suono, così come i coperchi dei pianoforti di Nevermore non vibreranno mai di alcuna melodia. C’è un’unica presenza, debolmente antropomorfa, ad albergare in questa unità d’abitazione altrimenti destinata a una sensibilità scossa e vigile come quella di un insonne, che percorre e ripercorre lo stesso corridoio alla ricerca di un appiglio, che perlustra le stesse pareti nel tentativo di liberarsene: è una testa di ceramica che trascina, come una coda, una corda erosa (Scia); una presenza ambiguamente mitologica che si dibatte tra le sembianze di una sirena da ripostiglio e quelle di una medusa artigianale, adagiata come un reperto su una carta da parati di plastica a bolle d’aria e finte perle. Un materiale, quello comunemente conosciuto come “pluriball”, con cui proteggiamo le cose che dobbiamo riporre via e con cui trasportiamo gli oggetti delicati. Un materiale che denota una transizione, un rivestimento che segnala un abbandono - momentaneo o definitivo che esso sia, non importa - e che qui troviamo esteso a decoro parietale, come se di fragilità fosse investita l’intera situazione spaziale che ci troviamo a percorrere.
Francesco Carone sembra proiettare la sua “triste immaginazione” sugli elementi di un interno domestico che si fanno compagnia tra di loro senza per questo ospitarci; oggetti che, se interrogati, paiono restituirci la stessa, medesima risposta alle domande che poniamo loro come “l’uccello d’ebano” insistentemente fa nel componimento di Poe. Il teatro di questa interrogazione sulla fine delle cose è un teatro domestico, per quanto i brandelli che lo compongono siano accesi di un’immaginazione a tratti surreale, un’immaginazione solitaria e notturna, infestante. Ci sono momenti in cui, osservando le cose più prosaiche e quotidiane che ci circondano, scorgiamo la nostra fine nella loro. C’è chi, come gli artisti e i poeti, riesce a dare forma a quest’angoscia e per loro quell’attimo di realizzazione diventa un campo metamorfico e immaginifico, in cui le cose superano la propria apparenza. La maggior parte di noi, invece, in quell’attimo ammutolisce e con noi le cose, che restano cose senza scampo. Allora riemerge la memoria degli ultimi versi di Cesare Pavese, l’immagine finale - trasformativa e per questo salvifica - che chiude Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, quella dello scarico del lavandino del bagno che diventa l’ingresso all’Ade.
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Francesco Carone è nato a Siena nel 1975 dove vive e lavora. Ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Siena.
Tra le mostre personali segnaliamo: TITOLO l’edito inedito, a cura di Federica Maria Giallombardo, Société Interludio, Torino (2021); L’Inconsolabile, a cura di Ilalia Mariotti, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, Pisa (2021); Il
Disinganno, SpazioA, Pistoia (2018); Ciclope, a cura di Rubina Romanelli, Museo Novecento, Firenze (2018); Natura morta con lettera, MAGra, Granara (2018); Boudoir, Galleria SpazioA, Pistoia (2016); Muta Bellezza, Galleria SpazioA, Pistoia (2013); Rendezvous des amis, a cura di Marinella Paderni, Museo Civico, Siena (2012); Horror vacui, EX3 Centro per l’Arte Contemporanea, Firenze (2010).
Tra le mostre collettive a cui ha partecipato segnaliamo: L’ITALIA È UN GIARDINO. Di ricerche estetiche agresti, a cura di Geraldine Blais, Archivi Vitali, Lecco (2021); Flow, un progetto di Francesco Carone e SpazioA, Pistoia (2020); A Word that Troubles, curated by Gaia Bobò, The Gallery of Art, Temple University, Roma (2020); 20 x 15 Opere su carta per l’Archivio Storico Magnani di Pescia, a cura di Ilaria Bernardi, Museo della Carta, Pescia (2019); 10 Years
of Love, SpazioA, Pistoia (2018); Nonostante questo buio, a cura di Stefania Margiacchi e Alessia Posani, Spazio Siena, Siena (2018); Solo Figli, curated by Sergia Avveduti e Irene Guzman, Padiglione Esprit Nouveau, Bologna (2016); La torre di Babele, a cura di Pietro Gaglianò, Officine ex-Lucchesi, Prato (2016); Ri-pensare il medium:
il fantasma del disegno, a cura di Cristiana Collu e Saretto Cincinelli, Centro per l’Arte Contemporanea Casa Masaccio, San G.Valdarno, Arezzo (2015); La sottile linea del tempo, a cura di Marinella Paderni, Fondazione Museo Miniscalchi-Erizzo, Verona (2015); Contemporary locus 1, a cura di P. Tognon, Luogo Pio della Pietà, Istituto Bartolomeo Colleoni, Bergamo (2012); Brightlight / Darklight a cura di Ludovico Pratesi e Valentina Ciarallo, American Academy, Roma (2012).