Francesco Simeti – Armed Barbed And Halberd Shaped
Mostra personale
Comunicato stampa
FRANCESCO SIMETI
Armed, barbed and halberd shaped
A cura di Nicola Ricciardi
Inaugurazione Mercoledì 11 Maggio, ore 19
Artemisia, stramonio, sorghetta e papavero. Avanti popolo delle erbacce, proletariato del mondo vegetale, rovesciate il trono delle specie orticolturali più raffinate, decapitate gli ibridi ipercivilizzati. Partite lancia in resta e destituite la rosa, regina del giardino. Sono con voi i Romantici e i poeti, Emerson e Thoreau. Già canta Gerard Hopkins, “vivano sempre le erbe, le selve selvagge!” Ma ecco che pronta giunge la mano del giardiniere—creatore, guardiano e giudice dei paesaggi artificiali—e subito la rivolta è sedata. Un colpo di vanga alla radice e gli infestanti sono estirpati. Ogni giardino affidato alle cure dell’uomo è un golpe mancato, una rivoluzione fallita.
Non questa volta, non in questa mostra. Nel giardino disegnato da Francesco Simeti non c’è posto per le rose: su questo campo di battaglia hanno già vinto l’amaranto e l’ortica, la bardana e la morella. Lontana è la vagheggiata utopia Occidentale di spazi verdi ammansiti e sempre in fiore, dove gli insetti non mordono e le foglie non pungono. Il paesaggio immaginato da Simeti non segue la rassicurante ripetitività delle aiuole, l’ordine gerarchico degli orti botanici, il rigore geometrico dei campi arati: l’ispirazione non viene dagli idilli floreali di Monet ma piuttosto dalle terre paludose, dai prati incolti e dai terreni trascurati dall’uomo dipinti da Charles Burchfield.
Le infestanti di Francesco Simeti crescono sui plinti, sbucano come lame dal cemento, si arrampicano sui muri fino a ricoprire pareti intere. Sembrano alabarde, lance, scudi pronti all’uso, irrequieti e impazienti per una nuova schermaglia. Eppure, a guardar bene, la loro vitalità e irruenza—così come la loro autonomia—è celebrata e al tempo stesso negata: la materia di cui sono fatte è inorganica, la loro forma scolpita da quelle stesse mani che sono solite temere, quelle degli uomini. In questa palude-giardino, dove anche la bruma è un manufatto umano, la fotosintesi ha lasciato il posto alla cottura ceramica e alla fusione a cera persa.
Tutto è selvatico eppure tutto è artigianale, la rivoluzione è compiuta ma gli insorti non saranno mai liberi. È la sintesi plastica dello schizofrenico rapporto dell’Occidente con la natura selvaggia: da un lato celebriamo il mito collettivo della wilderness, ci tormentiamo per preservare l’elemento naturale dal condizionamento umano; dall’altro siamo ormai consapevoli dell’impossibilità di scindere il destino della natura dall’azione dell’uomo: dalla riduzione della biodiversità al mutamento del clima, l’ecosistema è già di per sè un prodotto antropico. Le stesse infestanti non sarebbero tali—o non esisterebbero proprio—se non fosse stato per le nostre migrazioni.
I fiori di bronzo e le foglie di argilla di Simeti ci ricordano che una qualche forma di giardinaggio è inevitabile—e a volte inconsapevole—persino in quei luoghi che vogliamo tutelare quali monumenti alla nostra assenza. Confrontandosi, forse per la prima volta in maniera così decisa e diretta, con la pratica scultorea, l’artista non solo espande in nuove direzioni la sua decennale ricerca iconografica sull’ambiente che ci circonda, ma rinforza anche l’urgenza di una domanda che si è fatta orami ricorrente: è possibile fissare nel tempo—e dare una forma nello spazio—al confine sempre più labile tra natura e civiltà?
Nicola Ricciardi