Gabriele Arruzzo – Compendium
Come recita il titolo della mostra, ripreso e adattato da un quadro del 2012, l’esposizione raccoglie alcune delle più significative opere che Gabriele Arruzzo [Roma, 1976] ha dipinto negli ultimi quattro anni di attività.
Comunicato stampa
Come recita il titolo della mostra, ripreso e adattato da un quadro del 2012, l’esposizione raccoglie alcune delle più significative opere che Gabriele Arruzzo [Roma, 1976] ha dipinto negli ultimi quattro anni di attività. Ma il “com-pendio” cui allude l’artista è riconducibile an-che alla propria praxis pittorica, caratterizza-ta dalla tracotanza dei dettagli che rimandano alle variegate fonti iconografiche di cui si compone ciascun quadro. Che si tratti di inci-sioni, di miniature o di vecchie illustrazioni, Arruzzo saccheggia la storia dell’arte, assem-blandola attraverso un cut and paste che ci restituisce un complesso e labirintico ordito visivo. Si veda a questo proposito il grande quadro realizzato appositamente per Lissone, vero e proprio “compendio” dei draghi con-cepiti da Albrecht Dürer.
Come si evince dal monogramma di Arruzzo, Dürer è l’autore preso a modello (ad “arche-tipo” verrebbe da dire) in queste opere, in vir-tù dei frequenti sconfinamenti tra i generi pit-torici e per la sua ineguagliabile produzione incisoria; saccheggiando l’iconografia tradi-zionale, Arruzzo compie un détournement dell’immagine, ossia una tenace – e perversa – persistenza della figurazione che denota una volontà di radicarsi nel passato e allo stesso tempo di sviscerare il presente.
Il pastiche di Arruzzo padroneggia idiomi e simboli che vengono annegati nell’impasto lucido/opaco dei pigmenti industriali (gli smal-ti e gli acrilici non diluiti negano lo sfumato a favore dell’à plat). Sopravvivono in modo spo-radico i colori saturi e caramellosi degli esor-di, mentre predominano le cromie neutre degli ultimi anni, in particolare l’argento che l’artista definisce come un “colore/arma”. Lo stesso si può dire di tutto “l’armamentario” che troviamo disseminato nelle immagini, quegli strumenti del mestiere che affollano le tele, fornendo allo spettatore indizi utili per comprendere la densa e complessa iconogra-fia dell’artista. Si osservino per esempio i motivi settili che riprendono la pavimenta-zione della Flagellazione di Cristo dipinta da Piero della Francesca, i tanti “oggetti aggre-diti dal tempo” che si ricollegano al concetto delle vanitates seicentesche, oppure i solidi platonici, le scacchiere e le proiezioni ortogo-nali che attengono all’invenzione della pro-spettiva.
Quasi tutte le opere esposte al MAC di Lissone sono concepite come quinte sceno-grafiche e macchine teatrali – si notino infatti i sipari che si ritraggono sui lati dei dipinti – sorta di grandguignoleschi palchi/patiboli ove si avvicendano generiche figure di pittori, tiranni e assassini. Si tratta ovviamente di metafore riconducibili ai patimenti e all’estasi dell’ars picta così come al ruolo stesso del pittore. Non per caso i personaggi sono spes-so ritratti in posture che alludono alla devo-zione e al patimento: ogni quadro è in sé una preghiera (facendo tesoro della lezione di Jean-François Millet) e un agone (perché, come diceva Henri Matisse, «non siamo sulla terra per risparmiarci»). L’artista ci mostra quindi dei “filosofi della pittura” che si com-portano come i serial killer, lasciando la pro-pria firma sul luogo del delitto, oppure come i grandi dittatori del secolo scorso, i quali hanno imposto un “ordine” e uno “stile” alle arti liberali. Per Arruzzo, queste opere sono Ritratti di idee: una idea di bellezza, vale a dire una superficie da riempire di colori e forme, fino a creare un horror vacui che ricompensi l’osservatore. Facendo leva sulla smania pantagruelica e onnivora del proprio campionario-compendio culturale, la gene-rosa figurazione di Gabriele Arruzzo sollecita i nostri processi intellettuali, creando un’inde-rogabile triangolazione tra autore, soggetto e opera.