Gabriele Basilico – La Progettualità dello Sguardo

Informazioni Evento

Luogo
CHIESA DI SAN LORENZO
Via Pomponio Amalteo 1 (33078), San Vito Al Tagliamento , Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

sabato e domenica 10.30-12.30/15.30-19.00 (ingresso gratuito)

Vernissage
16/06/2017

ore 11

Biglietti

ingresso libero

Artisti
Gabriele Basilico
Curatori
Angela Madesani, Giovanna Calvenzi
Generi
fotografia, personale

La mostra, ideata e promossa dall’Accademia di architettura (USI) di Mendrisio assieme allo Studio Gabriele Basilico presenta 60 fotografie.

Comunicato stampa

La mostra, ideata e promossa dall'Accademia di architettura (USI) di Mendrisio assieme allo Studio Gabriele Basilico presenta 60 fotografie. Tra le immagini selezionate quelle tratte dalla serie “Bord de Mer” e un gruppo di paesaggi realizzati in Italia, Portogallo e Spagna. Particolare attenzione è stata dedicata alla Svizzera: una serie racconta l'architettura di Luigi Snozzi a Monte Carasso e un'altra San Gottardo. Un nucleo di 30 fotografie è invece dedicato alla ricostruzione di Gemona del Friuli, lavoro che Basilico ha realizzato nel 1992.

La progettualità dello sguardo
di Angela Madesani
Il paesaggio in Europa, a partire dagli anni Ottanta, nella fotografia di Gabriele Basilico, è il tema della rassegna La progettualità dello sguardo. In mostra sono immagini dalla Mission photographique de la DATAR, dai lavori Bord de Mer (1984- 1985), Porti di Mare (1990), Trentino (2003), Montepulciano Site Specific (2009) e altre fotografie dedicate a Capri, alla Val d’Aosta, al Brennero, alla Calabria, alla Sardegna, a Napoli, allo Stretto di Messina, alla Spagna, al Portogallo, alla Francia. È, inoltre, presente un importante gruppo di immagini di ambito svizzero sul passo del San Gottardo (1997) e la serie di 30 fotografie su Gemona del Friuli ricostruita del 1992.
Se il tema costante della sua ricerca è stato la città, anche il paesaggio vi ha trovato più volte spazio, pur se in maniera non sistematica. Certo è che, quando se n’è occupato, ha messo in campo una riappropriazione dello stesso, che è riuscito perfettamente a trasmettere, in tutte le sue implicazioni di natura morfologica, estetica, sentimentale. Nel 2007 Basilico scrive: «Prima la questione dello spazio fisico e del territorio era offuscata dal flusso degli eventi e delle correlate spinte sociali, a tratti drammatiche. Così, la coscienza di quel processo di crisi e del suo stato di quasi irreversibilità, è stato alla base di un dibattito politico e culturale che ha restituito centralità al paesaggio e ha impegnato progressivamente sempre più soggetti. Un dibattito, bisogna dirlo, incentivato soprattutto dal lavoro svolto dai movimenti ecologisti nei luoghi a rischio e, su un altro piano, anche dagli artisti impegnati nella Land Art, ormai penetrata in Europa come pratica artistica legittimata».
Il suo è un paesaggio antropizzato, segnato da strade, ponti, edifici, in cui l’uomo è assente solo da un punto di vista fisico. Il primo importante lavoro a esso dedicato è quello realizzato nel 1984, per la Mission Photographique della DATAR (Délegation à l’Aménagement du Territoire et à l’Action Régionale), dove viene invitato a partecipare, dal governo francese, unico fotografo italiano. Sceglie di occuparsi di un luogo di grande bellezza, la costa nord occidentale, della quale non esiste una particolare documentazione fotografica. È un itinerario di oltre 400 km, dal confine col Belgio a Mont Saint Michel, attraverso il quale si riconcilia con una tipologia di immagine che sino a quel momento gli pareva abusata, da studiare ma non da praticare. All’inizio degli anni Ottanta la riscoperta dei valori del paesaggio, della sua “normalità”, l’anti-monumentalità e, soprattutto, il bisogno di vuoto, sono determinanti per Basilico.
L’aspirazione è alla neutralità dello sguardo, per eliminare qualsiasi forma di virtuosismo autoriale.
Sempre nel 2007 il fotografo afferma: «Penso che a metà degli anni Ottanta ci fosse in me un certo tipo di attrazione e di fascinazione che generavano uno sguardo attento alle grandi visioni d’insieme e all’armonia che univa le singole parti: nelle mie immagini di quegli anni, infatti, i punti di fuga tendevano ad avvicinare l’orizzonte. […] In un periodo successivo, credo di aver mantenuto la stessa concezione allargata dello spazio, ma dilatando i tempi della sua rappresentazione; così da rendere la visione più essenziale, più neutra. I cieli hanno perso drammaticità, lo scenario è in parte più freddo, ho usato pochi toni forti ma con più gradazioni di grigio, che mi hanno permesso di avere una fotografia più omogenea, più neutra, di rappresentare una realtà con maggiore astrazione.
Forse, tutto sommato, il segno caratterizzante di questa fase è la contemplazione: una visione diretta, pura, sfrondata da ogni necessità critica e forse anche estetica, o meglio da ogni estetismo, attenta a cogliere e a restituire con grande precisione la realtà così com’è, nella sua complessità e totalità, senza
giudicare. Una visione appunto neutra, normale». L’utilizzo del banco ottico, che inizia a utilizzare in questa occasione, permette di controllare e correggere la prospettiva, impone una certa lentezza dello sguardo, che favorisce la riflessione, il pensiero, la progettualità, così da creare una relazione approfondita con il soggetto.
La sua volontà è di mettersi da parte per dare vita a immagini apparentemente oggettive, in cui non vi siano filtri di sorta. Una delle missioni della DATAR è proprio quella di riuscire a leggere il fenomeno dello “sfrangiamento” del paesaggio, dall’altra di cercare di riformare dei modelli. Bisognava dare spazio ai luoghi, ma anche ai fotografi, che dovevano avere e hanno avuto libertà di interpretazione all’interno del progetto generale. Per ammissione dello stesso Basilico, il lavoro della DATAR gli dona la capacità di guardare il paesaggio con altri occhi, assai più contemplativi, che gli permettono di metabolizzarlo, di farlo suo, di viverlo in maniera esperienziale.
Porti di mare è un progetto che si sviluppa parallelamente alla DATAR. Sono fotografie scattate in undici porti, tra il nord e il sud dell’Europa, alcune già comprese nella mission. Il lavoro viene pubblicato, nel 1990, in un libro con titolo omonimo.
 Nel porto sono presenti natura e lavoro dell’uomo, Basilico è affascinato dalla monumentalità degli impianti e anche dal rapporto che si viene a creare con la struttura geofisica dell’ambiente: «Ho sempre amato le grandi architetture e le grandi macchine. E quella del porto è in fondo la stessa civiltà delle fabbriche: una civiltà di grandi dimensioni che riporta a quelle cattedrali gotiche che mi avevano colpito fin da bambino». In quelle foto si è spinto a ricercare fisicamente quanto già conosceva da un punto di vista simbolico. La sua, di fronte ai porti, è una vera e propria emozione visiva, vitale e sentimentale, che talvolta si concentra in un’unica immagine, come nel caso di Le Tréport, tra Normandia e Piccardia. Una foto è il frutto di una condizione climatica straordinaria, di luce, di un momento contemplativo assoluto.
Negli anni Novanta intensa è la collaborazione tra Gabriele Basilico e la Svizzera. Nel 1997 partecipa alla grande mostra sul San Gottardo, organizzata in occasione dei quarant’anni della banca omonima. Quello sul valico alpino è un lavoro particolare, in cui le tracce dell’uomo nella natura sono come dei segni, dei disegni astratti. Le strade, le infrastrutture, di cui non si colgono né inizio né fine, sono linee nella maestà della montagna, sottolineate dalla sapiente gestione del bianco e nero. Montagna che è qui punto di passaggio e di collegamento imprescindibile tra sud e nord, luogo di meraviglia e di mito sin dai tempi antichi. Quelli di Basilico sono paesaggi sospesi, dove di rado si rintraccia il tempo della storia. È il tempo della natura, delle stagioni. Sono punti di vista sull’infinito in cui le montagne giocano un ruolo da protagonista. Un infinito che va ben oltre il simbolo presente sull’obiettivo della macchina fotografica. Nelle sue immagini di paesaggio la visione diventa una sorta di riprogettazione non immediatamente percepibile, il cui scopo è anche quello di comprendere la relazione che si viene a creare tra lo sguardo e il mondo reale. Il compito del fotografo, come Basilico ha avuto più volte occasione di affermare, è quello di lavorare sulla distanza, di prendere le misure, di trovare un equilibrio, un ordine. La sua ricerca, nel corso degli anni, è consistita nella capacità di rintracciare il senso di un particolare luogo e di creare con esso un dialogo privilegiato.

La mostra La progettualità dello sguardo. Fotografie di paesaggio di Gabriele Basilico curata da Angela Madesani e Giovanna Calvenzi, una mostra ideata e promossa dall'Accademia di Architettura, Università della Svizzera Italiana, Mendrisio, in collaborazione con lo Studio Gabriele Basuilic, verrà presentata presso la Chiesa di San Lorenzo a San Vito al Tagliamento dal 16 giugno al 10 settembre. Giovedì 15 giugno, alle ore 20.30 presso il Teatro Arrigoni di San Vito al Tagliamento avrà luogo un incontro con Giovanna Calvenzi.

L’infinito è la in fondo
Giovanna Calvenzi

Ricordo con una certa precisione Gabriele Basilico che sfogliava Paesaggi di viaggi.
Era il 1994. La scelta delle immagini da pubblicare e da esporre in mostra era fatta da Filippo Maggia. Gabriele sfogliava quindi il piccolo libro e commentava quasi con stupore la selezione fatta dal curatore: guardava immagini che certamente aveva fatto lui nel corso degli anni ma che spesso non aveva né scelto né mai stampato in precedenza. “Romantiche”, commentava sorridendo, ma non era molto fiero del fatto che Maggia le avesse scelte e proposte in una sequenza che raccontava una visione in discontinuità rispetto all’ossessione per la città, i suoi confini e le sue trasformazioni, che era diventata l'imperativo categorico delle sue indagini. “Diverse dalle immagini cui l'autore ci ha negli anni abituati,” scriveva Maggia nella prefazione, “esse da un lato esaltano distintamente quel sentimento di malinconia sempre un po' presente nel lavoro di Basilico - “malinconia del divenuto”, qui più liberamene espressa, sapientemente dosata e indotta dalla luce, dai cicli e dalle polveri -, e nel contempo, con discrezione, si affermano quali testimonianza di un epoca precisa, motivando, spesso, un momento di sospensione, di astrazione dalla singola opera rispetto al contesto – quindi in totale antitesi, una volta di più, con l’idea della rappresentazione tradizionale del viaggio che, al contrario, vive del suo insieme collettivo di episodio.
La frequentazione del paesaggio per Gabriele Basilico non era una pratica consueta. Nei suoi scritti ha più volte ricordato il suo incontro con un “genere” fotografico che fino alla metà degli anni Ottanta aveva guardato con diffidenza. Nella raccolta di suoi testi, curata da Andrea Lissoni, Basilico infatti scrive: “Ho scoperto “la lentezza dello sguardo”. Uno sguardo lento, come era stato per Eugène Atget o Walker Evans, uno sguardo che mette a fuoco ogni cosa, che porta a cogliere tutti i particolari, a leggere la realtà in un modo assolutamente diretto: quindi il grande formato, il cavalletto, un ritmo rallentato, la luce così com'è, senza filtri, guardare e basta. In contemplazione davanti a questa meraviglia della natura ricca e mutevole… C’è un'immagine che racconta perfettamente queste sensazioni e queste precisione, ed è un paesaggio di Le Tréport che ho fotografato nel 1985. Nella mia esperienza sul campo è stato un passaggio senz'altro molto importante, direi persino cruciale. Penso che dopo quella ripresa fotografica in quel luogo, in quel momento, molte cose siano cambiate, e in particolare il mio rapporto con il paesaggio…. E’ a Le Tréport che ho forse davvero compreso il collegamento tra l’ampio, minuzioso paesaggio globale della pittura fiamminga del Seicento e la potenza di tono tutto industriale della fotografia: un collegamento tra una visone moderna del mondo e una contemporanea… E’ su quello schema potente, classico, nel quale la composizione si affida – apparentemente docile – alle forme del mondo stesso e respinge ogni acrobazia formale, che ho costruito un nuovo modo di vedere che spero di non aver più abbandonato”.
Le Tréport rimane nella sua esperienza come un momento di consapevolezza fondante: la scoperta del paesaggio, della contemplazione, della necessità di una lentezza di visione sulle quale rifletterà e teorizzerà a lungo, fino a farne una propria divisa comportamentale.
Nel 1997, quando Luca Patocchi e Alberto Bianda, allora rispettivamente direttore e art director della Galleria Gottardo di Lugano, lo invitano a partecipare a un progetto fotografico concepito per festeggiare il quarant'anni di esistenza della Banca del Gottardo, la relazione di Gabriele Basilico con il paesaggio è ampiamente consolidata. Gli viene affidato l’incarico di rileggere il Gottardo come “Arteria” secondo un’intuizione che vedeva la montagna e il suo traforo come ventre, cuore, arteria e cervello della nazione. Ai diciotto autori svizzeri ed europei coinvolti viene data la più totale libertà interpretativa. Basilico affronta quindi i paesaggi che portano alla vetta, ma rilegge anche la vastità delle vedute dall’alto o i grafismi che le strade disegnano sul fianco della montagna. I paesaggi del Gottardo propongono ancora e sempre lo stesso rigore di visone, nel quella “la composizione si affida alle forme del mondo stesso e respinge ogni acrobazia formale”, quel rigore che nel 1985 Basilico si era augurato di poter continuare a rispettar.
Sfogliando oggi il libro che raccoglie i paesaggi che ha realizzato nel corso di oltre trent’anni e anche le immagini di una magnifica “relazione con i luoghi” che è stata per lui – grazie a Luigi Snozzi – l’esperienza di Monte Carasso, Gabriele Basilico non sarebbe più stupito. Negli anni era venuto a patti con le visioni che definiva “romantiche” e che Maggia definitiva invece come “malinconia del divenuto”, aveva raggiunto una profonda consapevolezza della sua capacità di misurarsi con i grandi spazi non solo urbani.
Nella selezione di immagini realizzata per questa occasione da Angela Madesani e Marco Della Torre ci sono anche scelte poco frequentate (il paesaggio di Masua in Sardegna, ad esempio), ma la sequenza che i curatori propongono crea anche un itinerario che dà conto di una lucida ampiezza di visione, di una “progettualità dello sguardo” e di un'omogeneità d’intenti che permette di affiancare la Normandia al Trentino, la Valle d’Aosta al Portogallo, lo stretto di Messina a Barcellona, e che nasce dal una consolidata capacità di misurarsi con lo spazio infinito. Perché, come lui stesso ha scritto a mano su una sua foto di Merlimont Plage, “L’infinito è là in fondo, lontano, irraggiungibile”