Gaspare Sicula – Arlecchino XVII e XX

Informazioni Evento

Luogo
11DREAMS - ART GALLERY
Via Rinarolo 11/c, Tortona, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

dal martedì al sabato ore 16,00 – 19,30

Vernissage
20/07/2012

ore 18

Artisti
Gaspare Sicula
Generi
arte contemporanea, personale

Mostra personale

Comunicato stampa

Il Tempio
Ho pensato di restituire al tempio i colori che aveva quando fu progettato e costruito. Per far ciò non è stato necessario lavorare e insistere sulla corrispondenza esatta tra il colore che avrei dovuto usare oggi e quello originario di allora. Ho dipinto invece con l’idea guida di “colorato”, ossia di luogo, edificio dedicato al colore e al colorato. Ampliare con siffatto, impegnativo e sconfinato tema il già cospicuo ciclo dedicato ad Arlecchino mi è parso naturale e inevitabile.
L’idea di colorato che si ha di Arlecchino è sufficiente perché con la sola giustapposizione di forme (rombi di differente grandezza e apertura angolare più o meno allungati ad egli assimilabili tramite il suo vestito), anche se in una limitata gamma che tende alla bicromia di bruno e giallo, si abbia un’immagine che come proprietà visibile mostri la policromia più varia ed estesa.
Restituire l’aspetto che il tempio aveva al tempo della Magna Grecia usando solo i colori che il tempio ha oggi, questa era la sfida; con tranquillità e volutamente minimo dispendio di energia fisica (tutti i quadri, tranne uno, hanno una dimensione piuttosto contenuta) l’ho affrontata.
Il tempio di Arlecchino ha non più di due o quattro colonne, è di ordine dorico o ionico, ha basamento, trabeazione, frontone; è solo di facciata, non ha profondità, perché il tempio di Arlecchino è soltanto una quinta teatrale o una scenografia, perché il teatro è il luogo di Arlecchino, dove egli vive e si muove.
Anche il XVII, come tutto Arlecchino da I a XVI, è in gran parte fatto di bolle d’aria, perciò più che altro di “vuoti”, quindi è tanto leggero che si riesce a sollevarlo con estrema facilità, tanto flessibile e morbido da poter essere arrotolato senza alcuno sforzo, tanto trasparente da essere attraversato, come una vetrata, dalla luce che dà vividi accenti a forme e colori, diurna brillantezza a facciate frastagliate e uniformi cieli.
Partito il ciak, si può facilmente asserire che il tempio non è un’emanazione del cielo ma, più pragmaticamente, un prolungamento della terra. E che, quando alla patina colorata che lo ricopre, il tempo, togliendola, sostituisce la sua, ritorna al colore proprio naturale che è quello della pietra e della terra.

L’Anguria di Cartesio
Sarebbe stato fin troppo facile giocare sui tre colori, verde, bianco e rosso e tornare a mettere mani e testa nell’ancora fresca (anche malmenata, a volte) ricorrenza dei mille più ottocento compreso quel tanticchia in più dei bisestili (anni, s’intende). Ho voluto quindi evitarlo. Ma non è questo il motivo per cui ho scelto di colorare, perlopiù d’azzurro, la colpa del cocomero, pianta di magnitudo e conoscenza più del melo perché progredisce rasoterra per il peso e perciò, con estetica ctonia, avanza e cresce rimanendo adagiata su quel suolo il cui contatto prolungato riveste le scorze di pallore.
Mi sono spinto a misurare le proprietà di questo frutto d’acqua che per essere buono deve suonare sordo; ho provato a trascriverne i movimenti nel vuoto rosato d’alba e di vino; ad osservare quanto, come le meduse, si sciolga al caldo sole d’estate, accartocciandosi, esso, in grinzose e inacidite volute, smagrite e mollicce. Ad apprendere il mestiere delle antiche rotazioni (come ruota un foglio di carta piegato in quattro poggiato sul punto di congiunzione delle pieghe) e circonvoluzioni; a riordinare, con deroga autorizzata alle regole di Arlecchino, la disposizione dei semi. E ancora ad accompagnare con le mani le bicolori geometrie delle sezioni, l’integrità dell’ovale oppure le irregolarità della superficie grossomodo sferica.
Primadonna porge a Primouomo una fetta d’anguria, non prima di inventare una lama qualsiasi (di quest’ultima gli uxoricidi faranno un altro uso), perché nella Cocomerometria, nell’Anguria di Cartesio c’è sì la precisa localizzazione spaziale ma manca del tutto l’affettazione formale.
Quella che è venuta su in questo inizio d’estate è una pittura essenziale ed asciutta, il che è tutto dire. E’ matematica, è geometria analitica, materie di vaga memoria e consistenza in libri di ciclostile, sepolti dai caldi di una terrazza di bitume, che fanno la spola dai Quattro Canti – intonati perché di ginniche note guizzanti – alla multicolore e insonorizzata biblioteca del Politecnico meneghino; è da tanti anni ormai che le bianche e polverose pagine di questi volumi e i segni, le cifre, le lettere, le equazioni e formule che contengono, si muovono senza sosta da una confusa bacheca con tanti pizzini a un murale di Guernica che (lo seppi a tempo debito) si trova nel nord oceanico e non nel sud mediterraneo della Spugna, tra il monocromatico blu di Yves Klein e il colorato nero di Kafka Franz Kline, a cavallo di isole nella corrente in una lontana epoca dei fumi.

G.S.