Giovanni de Cataldo / Gianfranco Maranto – Spina
Una doppia personale dedicata a Giovanni de Cataldo e Gianfranco Maranto, a cura di Daniela Bigi e Gianna Di Piazza. Decimo appuntamento di Visual Startup.
Comunicato stampa
Inaugura giovedì 4 luglio alle ore 18.30 SPINA, una doppia personale dedicata a Giovanni de Cataldo e Gianfranco Maranto, a cura di Daniela Bigi e Gianna Di Piazza. Decimo appuntamento di Visual Startup, il programma di direzione artistica di Palazzo Ziino che il Comune di Palermo ha affidato dal 2016 all’Accademia di Belle Arti di Palermo, la mostra rientra in un disegno complessivo di ricerca incentrato sulle poetiche e sui mondi espressivi della generazione di artisti emersa nelle ultime stagioni.
Tra le varie formule adottate in questi anni da Visual Startup per rendere possibile un libero dispiegarsi delle idee, la modalità della doppia personale scelta in questa occasione permette un dialogo serrato, intimo potremmo quasi dire, tra progettualità differenti che per certi aspetti sono anche molto vicine.
La peculiarità logistica del contenitore espositivo ha rappresentato il cardine sul quale i due artisti hanno impostato il meccanismo della mostra, interessati entrambi alla lettura dello spazio dell’opera ma al contempo alla forzatura dello stesso, dentro una mobilità delle relazioni tra gli elementi che permetta di rendere instabili i punti di vista, li moltiplichi, li ibridi e per conseguenza li approfondisca. Un modo di procedere che, pur nella geometrizzazione di buona parte delle forme che ciascuno dei due autori propone, ci parla in realtà di una insofferenza, non gridata ma autentica, per il perpetrarsi di visioni unilaterali, per il proliferare di certa soggiacenza percettiva, ci racconta di un desiderio di guardare in modo più acuto, più personale e, perché no, con un rinnovato incanto.
La trasformazione degli spazi, lo spaesamento di certi oggetti o materiali, la sottolineatura o la ripetizione di alcuni elementi, la colorazione luminosa degli ambienti sono tutte strategie per sollecitare occhi, epidermidi, gesti spesso così automatizzati, così anestetizzati, da divenire estranei ai nostri stessi corpi, alle nostre volontà. Le piccole sgrammaticature, certe reiterazioni, o forzature, qualche provocazione, alcuni leggeri détournement, senza divenire mai troppo espliciti, giocando al contrario su un crinale di sottile ambiguità, palesano la curiosità di entrambi per l’esperienza fisica, sentimentale, quotidiana del proprio habitat, che diventa angolazione privilegiata dalla quale guardare alla più complessa struttura della realtà.
Giovanni de Cataldo (Roma, 1990) porta dentro il lavoro l’appartenenza al tessuto magniloquente e contraddittorio di una città come Roma. Utilizzando soprattutto materiali di provenienza edile e attingendo a un repertorio di oggetti del contesto o dell’immaginario urbano, dai guardrail incidentati ai tombini delle strade, alle epigrafi delle catacombe, alle sciarpe dei tifosi, all’arredo urbano, egli costruisce un mondo di elementi e di strutture dal forte appeal trasformativo, ora patinato e glamour, ora classico e aulico, ora irriverente e popolare.
Attraverso procedimenti di varia natura, da quelli più artigianali a quelli più tipicamente industriali, egli dà vita a forme scultoree che si situano dentro compagini allestitive ordinate, studiate, ma che in realtà si nutrono di sedimenti contraddittori, sono tracce del flusso urbano, con le sue storie, le sue tensioni. L’artista si appropria di quel flusso, lo fissa attraverso la manipolazione degli oggetti prelevati e mediante una messa in scena sapiente, che mentre estetizza, di fatto cela, mentre valorizza, in realtà polemizza, mentre ripete e confonde, in qualche modo racconta.
Anche Gianfranco Maranto (Petralia Sottana, 1983) attinge a un immaginario urbano, e questa volta la città è Palermo. Quello che lo attrae è la struttura delle cose, dei materiali e forse, ancor più, la struttura della luce. Lavora riducendo al massimo le informazioni figurali, arrivando alla sintesi estrema, alla linea, al punto, alle superfici geometriche con le quali allestisce poi degli ambienti astratti, in cui la ripetizione degli elementi costruisce griglie visive che danno vita a spazialità inedite. Nella maggior parte dei casi quello che si viene a creare è una sorta di luogo/dispositivo dal quale osservare il comportamento della luce, da guardare non solo con gli occhi ma da esperire con tutta la fisicità del corpo, in una condizione pacificata tra azione e contemplazione. I suoi pattern, artigianali e perfetti, sono diaframmi leggerissimi capaci di attivare radicali trasformazioni dell’intorno. Per via astrattiva e geometrica essi riportano nell’architettura dell’interno i ritmi, le forme, l’energia del paesaggio esterno, in un processo di trasmutazione degli elementi il cui il tempo, un tempo mediterraneo dalle radici e dai moti antichissimi, gioca da protagonista.
Arriviamo al titolo, Spina. L’idea originaria era plug, un termine che, con una sua ampia estensione semantica, vige nel gergo giovanile. Poi è diventato spina, aggiungendo alla suggestione dell’elettricità, dell’energia, del contatto, l’idea di una tensione, di un fattore che, come accade in natura, nelle piante, è espressione di difesa ma anche di attacco, e più in generale di vita. Vita conflittuale ma strenua, come nel più autentico mood di una grande città.
Si ringrazia per il sostegno: Z2O Sara Zanin Gallery, Roma