Giovanni Lamberti – Arte e tecnica
In occasione del 150° anniversario di fondazione del Politecnico di Milano, il Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta” e il Dipartimento di Meccanica, insieme con Poliefun, organizzano una mostra personale di Giovanni Lamberti, dedicata al rapporto tra arte e tecnica.
Comunicato stampa
L’arte è un linguaggio, un modo di comunicare, e contemporaneamente un mezzo di “ri-significazione”: prende un lembo di realtà, lo manipola, attira la nostra attenzione su di esso, e così lo fa uscire dall’ovvietà, rendendolo “espressivo”. Per far sì che l’opera produca un effetto, un motus animi, un’emozione (badiamo a non identificare questo abusato termine con la sua declinazione sentimentalistica – esistono infatti emozioni di svariatissima natura: intellettuali, civili, politiche e, nel caso dell’arte, anche puramente percettive), occorre che il contenuto che l’autore desidera esprimere si tramuti in forma e materia per mezzo di una serie di gesti, azioni e procedure che riassumiamo nella nozione, pur ampia e polisemica, di tecnica: ecco appunto il senso della téchne, come la chiamavano i Greci; un termine che i Latini traducevano con ars (che non significa assolutamente “arte”). Il rapporto tra questi due concetti è uno degli snodi fondamentali della riflessione estetologica, oltre che – in certa misura – della semiologia, perché investe il problema degli statuti disciplinari.
Altrimenti detto: come sia possibile distinguere un qualsiasi manufatto (inteso in senso largo, non etimologico, non essendo rilevante ai fini del nostro discorso il fatto che vi sia o meno intervento della macchina nella sua realizzazione) da un oggetto a valenza e destinazione artistica. In entrambi vi è sempre un sostrato tecnico-razionale, che per il dipinto (per fare un esempio nell’area estetica) può essere talvolta magari secondario, e risultare quasi inavvertito, ma comunque esiste, mentre per l’“attrezzo” (uso il termine nell’accezione propostane da George Kubler) sarà costantemente preponderante. Ciò che li distingue, dunque, potrebbe essere il prevalere o meno di questa componente, la percentuale di “tecnicità” in essi trasfusa, ovvero resasi necessaria per la loro creazione.
È però assai più probante, nello sceverare il generico manufatto dall’opera d’arte, la considerazione delle rispettive funzioni. Ogni “cosa” prodotta dall’uomo è la soluzione intenzionale di un “problema”; è la risposta, anche quando non ce ne rendiamo conto, a un bisogno, che può essere preesistente oppure nascere contestualmente all’oggetto (ed essere quindi, per così dire, determinato da questo); nasce con un obiettivo, insomma, e quanto più vi si adegua e si avvicina a raggiungerne appieno il soddisfacimento, tanto più è efficace. Ebbene, lo scopo dell’“attrezzo” è di natura pratica, utilitaria: una bottiglia serve a contenere un liquido, un treno a consentire di spostarmi da un luogo all’altro più rapidamente che a piedi, un martello a piantare un chiodo; la bottiglia, il treno e il martello possono pure essere belli, di forma piacevole, ma se non espletano bene la funzione per la quale sono stati costruiti, hanno fallito, sono una pessima bottiglia, un pessimo treno, un pessimo martello (ciò vale anche per l’oggetto di design: se una sedia è originale, elegante, di gusto, ma non è in grado di sostenermi qualora mi ci accomodi sopra, ne consegue che non è una buona sedia).
L’opera d’arte invece ha finalità assai differenti: non risponde a un bisogno concreto, pratico, tangibile. Esprimiamo meglio il concetto: in essa manca la caratteristica prevalentemente strumentale. Ciò non significa che sia inutile e gratuita, ma che sta in relazione con esigenze dissimili, più profonde; di specie psicologica, o spirituale, se vogliamo: quella che appunto chiamiamo dimensione estetica, e che ha attinenza con la coscienza, intesa come autoconsapevolezza, capacità di guardare noi stessi dal di fuori, di riconoscerci in quanto individui, di porci domande (giacché l’uomo, diversamente dall’animale, non si nutre, bensì mangia, non si ingozza, ma apparecchia la tavola e dispone le vivande nel piatto con cura e ricercatezza: non deve soltanto soddisfare necessità vitali, ma iscrive i propri atti in un ambito sociale e culturale).
Inoltre – ulteriore elemento d’importante distinzione – l’opera d’arte presuppone il distacco da ogni prassi abitudinaria: se nel realizzare un manufatto posso (anzi devo, in certa misura) compiere azioni determinate e ripetibili/ripetitive, essa al contrario le rifiuta, richiedendo facoltà inventiva, fantasia, continua esplorazione di nuove prospettive. È unica e insostituibile, mentre l’“attrezzo” è comune e sostituibile.
Giovanni Lamberti si muove deliberatamente su un terreno di confine. Nelle sue composizioni la tecnica svolge un ruolo basilare: gli permette di ottenere superfici lisce e compatte, d’innescare effetti percettivi particolari, di creare raffinate dialettiche di colori e di testure, di suggerire un sottile dinamismo, di costruire e montare meccanismi perfetti. Come già scrissi, è un’apoteosi della nozione di “progetto” e di “buon disegno”. Ed è un’arte aniconica per eccellenza. Parlare semplicemente di astrattismo sarebbe insufficiente: non solo, infatti, è bandito ogni possibile riferimento figurativo, ma anche qualsiasi traccia di simbolismo e di denotazione. Le opere di Lamberti non rimandano a nient’altro che a se stesse: un rosso non allude al fuoco o alla passione, un nero non è emblema della notte o del nulla. Tutto ha senso nel proprio esserci, hic et nunc, nello squadernare la sua “cosità”.
La funzione di queste composizioni – che non sono dipinti né sono sculture, ma si situano spesso alla confluenza di espressioni e tipologie diverse – non è certo di matrice utilitaristica: benché il loro background tecnico sia così rilevante, esse restano risolutamente ascritte al novero dell’arte. Possono magari ricordare per analogia stilistica alcuni esiti dell’arredamento di design, e ne mutuano i materiali (alluminio, ferro, acciaio, legno, polistirene ricoperto di PVC…), nonché le lavorazioni (verniciature industriali, incastri e assemblaggi, e via dicendo), ma del tutto differente è l’approccio creativo: Lamberti cerca incessantemente soluzioni formali ed estetiche che abbiano le proprie ragioni nel puro piacere dell’indagine percettiva, del gioco combinatorio degli elementi, della disposizione calibrata nello spazio. La loro funzione è di ampliare il nostro sguardo e di appagare il desiderio di varietà ed euritmia tipico della mente umana, escogitando sempre nuove dialettiche e rapporti fra linee rette e curve, angoli acuti e ottusi, superfici lucide e opache.
Ne nascono equilibri visivi che uniscono l’estremo ordine con un’impressione di dinamicità, la scansione regolare con lo scarto inatteso. Il lessico geometrico si solidifica nell’emergere verso la tridimensionalità, componenti aggettanti rispetto al supporto generano un moltiplicarsi e sovrapporsi dei piani che a volte fatichiamo a distinguere quando sia illusionistico e quando reale. L’occhio e il cervello non sono mai a riposo, con Lamberti. Ma il compito dell’arte, se effettivamente essa ne ha uno, è proprio di mantenerli in costante allenamento: è l’avventura del pensiero di chi crea e di chi osserva.