Giovanni Morgese – Help
Mostra personale di Giovanni Morgese.
Comunicato stampa
Morgese si muove in una dimensione in cui non conta la facciata fisica del manifesto, ma la sostanza metafisica della manifestazione. La stessa in grado di riannodare tra loro le relazioni stabilitesi tra cielo e terra, «dal momento che l’atto del re-ligare, riannodare, ingenera la religio». Una religione che si affida ai «mezzi dell’arte […] «umili e inadeguati», avendo utilizzato di continuo e fino allo spasimo «materiali poveri e naturali, come il terreno, il legno», ma non necessariamente effimeri o di scarto.
Benché, al riparo da pile e baciapile, interpreti il ruolo di un paladino intento a «visualizzare l’Eterno nel solco di una religione che, occupando l’apice del sapere, non stravolge l’ordito tessuto dalla fede al telaio della ragione», in linea – com’è - con una filiazione diretta da Blaise Pascal. Perché, mi piace ribadirlo, «la fede non ha paura dell’intelligenza». Anzi, la asseconda metaforicamente e la sconvolge a tal punto da trasformare delle «sculture scritte» in «scritture scolpite». Secondo la logica del travestimento simbolico e del ribaltamento che, dietro impulsi rinverdenti e propositivi, si fa strada, avvalorando nuovi approdi formali e nuove sintesi plastiche tramite la progressiva smaterializzazione dell’imago hominis e non solo.
Un’operazione che per analogia, senza scomodare Giacometti o altri simulacri (filosoficamente riconducibili alla struggente «saga del quotidiano» di George Segal con quella sua umanità aliena, ingessata dal proprio disagio esistenziale), si traduce in «pensiero visivo». Un messaggio strappato al caos, e potenziato da una penetrabilità semantica che è sotto gli occhi di tutti. Un memento che, d’altro canto, implica – lungo due versanti distinti, ma complementari – la difesa e la diffusione della «parola sacra». Ovvero della parola che, a risentire altri, ricomposta dopo l’eccitazione della visione custodirebbe «il segreto del sacrificio dell’Uomo», teorizzato a suo tempo da Heidegger.
Una parola che viene dall’alto. E che, pertanto, non ammette repliche. Né si svende alle lusinghe del doppio senso nel tentativo, ben riuscito, di acclarare la sua origine in quanto Verbum. Una parola che, aureola di splendori inenarrabili, rafforza la portata simbolica ed emblematica di ogni singola opera di Morgese, incoronando – come scrissi di lui qualche anno fa – «il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto». Una parola che, alla resa dei conti, fa la differenza. Perché, avvicinando la creatività contemporanea alla catechesi, «rilegge la storia dell’arte sotto il profilo della didattica del sacro». Ché, in definitiva, è e rimarrà «didascalia della fede». Gaetano Mongelli