Giulia Fumagalli / Aran Ndimurwanko – Le pieghe del vuoto
Si tratta di una selezione eterogenea di lavori frutto della doppia residenza di cui i due artisti hanno fatto esperienza durante la primavera, prima in Cile e poi a Panama.
Comunicato stampa
Come raccontare due luoghi lontani dopo averne fatto un’intensa esperienza?
Quali forme possono assumere?
Cosa in loro può essere considerato pieno?
Cosa, invece, vuoto?
E come queste entità agli antipodi possono dialogare tra di loro?
Queste sono alcune delle domande che ruotano attorno a Le pieghe del vuoto, la mostra di Giulia Fumagalli (Carate Brianza - MI, 1990) in dialogo con Aran Ndimurwanko (Trento, 1991) che dal 19 novembre al 23 dicembre 2022 inaugura presso il Centro Luigi di Sarro a Roma.
Si tratta di una selezione eterogenea di lavori frutto della doppia residenza di cui i due artisti hanno fatto esperienza durante la primavera, prima in Cile e poi a Panama. Il risultato è così la loro visione personale e artistica di questi due luoghi, geograficamente vicini, ma completamente agli antipodi. Da un lato, il paesaggio cileno, visivamente aperto per via dell’immensa distesa desertica, che seppur vuota è in grado di innescare continue connessioni. Dall’altro quello panamense, visivamente chiuso per la presenza della giungla impenetrabile,
Due esperienze completamente opposte, che attivano vicendevolmente sensazioni di pieno e di vuoto, contrapponendoli ma allo stesso tempo facendoli diventare anche uno la conseguenza dell’altro. Così, concentrandosi sulle caratteristiche estrinseche e intrinseche di questi due luoghi, Fumagalli e Ndimurwanko ne danno una loro lettura. Se Fumagalli indaga due elementi naturali - acqua e aria - che si materializzano in installazioni leggere e poetiche in grado di evocare la loro presenza, Ndimurwanko plasma la terra, dando vita a dei lavori carichi di quotidiana ritualità.
La mostra fa parte del progetto CL/PA - the travel di Giulia Fumagalli, realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council (X edizione, 2021), programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
Ammiro chiunque riesca a scrutare nel mistero delle cose visibili e invisibili di questo mondo, chiunque riesca a presagire dalla semplicità di ciò che è, la bellezza di ciò che potrebbe essere e cristallizzarle in opere cariche di poesia e di significato. Giulia Fumagalli e Aran Ndimurwanko, ognuno a suo modo, riescono in questa impresa, dando vita a lavori che diventano un inno a due luoghi - Cile e Panama - di cui hanno fatto esperienza.
Ma come raccontare questi due paesaggi lontani?
Si tratta di due realtà che ruotano attorno a degli opposti che, seppur distanti, si attraggono: aperto e chiuso, uomo e natura, pieno e vuoto, verticale e orizzontale.
Ma quindi cosa può essere considerato pieno all'interno di un luogo? Cosa, invece, vuoto? E come questi possono dialogare tra di loro?
Da un lato il silenzioso paesaggio cileno, visivamente aperto per via dell’immensa distesa desertica, che seppur vuota è in grado di innescare continue connessioni; dall’altro, il rumore di quello panamense, visivamente chiuso per la presenza della giungla impenetrabile, che riempie gli occhi e anche la mente, sovrappopolandoli di immagini e significati.
Fumagalli e Ndimurwanko mettono in relazione i loro lavori - visivamente così lontani, ma concettualmente così vicini - cercando di dare voce a queste questioni. E, navigando tra questi opposti, anche i loro due universi collidono, dando vita a una preziosa visione dei due paesaggi e mostrandoci due facce della stessa medaglia: leggera e poetica una, possente e atavica l’altra. In questo modo, Cile e Panama trovano una loro forma: è il paesaggio che può finalmente dare voce alle sue essenze identitarie, che i loro occhi attenti e sensibili hanno saputo cogliere e scrutare, racchiudendole in una visione del tutto personale.
Così, i due luoghi sono diventati una sintesi di forme essenziali, di elementi sospesi tra un’imprevedibile vuoto e un soverchiante pieno. Se Fumagalli indaga, però, gli elementi naturali che si concretizzano in installazioni poetiche e leggere in grado di evocare la loro presenza, Ndimurwanko plasma la materia, dando vita a dei lavori semplici ma carichi di una quotidiana ritualità.
Fumagalli, in effetti, ci propone una sua intima riflessione sull’incontro con i luoghi, assaporandoli e lasciandosi riempire dai diversi elementi che li animano. La natura che ci presenta è ben rappresentata all’interno del suo libro d’artista, al quale richiama anche il dittico fotografico in cui interviene un elemento quasi scultoreo a rompere la bidimensionalità dell’immagine. Infatti, un bastone di legno attraversa la fotografia, ricordando il senso orizzontale e verticale dei due paesaggi. Eccetto queste immagini con una visione più didascalica, la natura del luogo non è però mai identica a quella del mondo visibile: infatti, ne è sempre una sapiente scomposizione, alla ricerca dell’essenza stessa delle cose, cristallizzata in profondi attimi poetici. È qui che elementi spesso impercettibili della natura trovano finalmente una loro dimensione visibile. È l’aria che disegna le sue forme lasciando sull’orizzontalità della carta le tracce gocciolanti d’inchiostro creato con la resina di una pianta cilena. È l’acqua che si materializza in tocchi bianchi su bastoncini di legno come piccole note nel grande spartito verticale della giungla panamense. Gli elementi propri del luogo diventano in questo modo emblemi dell’ambivalenza tra pieno e vuoto - ma allo stesso tempo di orizzontale e verticale. Questi finalmente trovano una loro forma attraverso l’estetica minimale tipica dell’artista che esalta così l’incontro e la conseguente scoperta dei due paesaggi, magistralmente racchiusi anche nei due manifesti - uno del pieno e uno del vuoto, uno completamente bianco e l’altro totalmente nero - in cui si svela l’intera esperienza di opposti.
Ndimurwanko presenta, invece, una selezione in cui ritorna la sua attenzione per la materia che viene plasmata, scolpita o incisa in forme semplici e geometriche. La realtà è così sintetizzata in lavori carichi di significati, che ci mettono in connessione anche con un’invisibile che vicendevolmente mette in mostra il binomio pieno-vuoto. Tutto il suo lavoro, infatti, è giocato su questa contrapposizione, resa con una materia grezza che solo così riesce a esaltare sé stessa. Ed è proprio il mantenere intatto il colore di partenza del materiale scelto - sia esso argilla, legno o pelle - che rende i lavori di Ndimurwanko più veri, più autentici, perché non si celano mai dietro a qualcosa che non sono, svelandoci finalmente il mistero della materia. In Cile, l’argilla non cotta richiama l’idea di un fango primordiale di vita, a cui l’artista dedica una serie di altari, animati dal colore naturale della terra. L’alternanza tra pieno e vuoto è qui ben evidente: le forme si insinuano e si estendono a creare un elemento visivo semplice, in cui è la terra stessa che esalta la terra e il pieno che valorizza il vuoto nel desolato ma vitale deserto cileno. La caotica giungla panamense è, invece, contrapposta al ritmo ordinato della finca - la piantagione del villaggio. Così il trittico in legno inciso si configura come una porzione di quel paesaggio che si esalta e si riempie di vita solo all’arrivo della pioggia, che, disordinata, lo abbraccia e porta il pieno nel precedente vuoto.
E alla fine proprio quel vuoto che sembrerebbe circondarci, entra dentro di noi e ci riempie, dimostrando come la vera bellezza può essere ricercata - e trovata - nell’infinitamente piccolo e nell’inaspettata semplicità. Perché in fondo tra le pieghe invisibili del mistero del vuoto si insinuano anche tutte le possibili sfumature della concretezza del pieno.
testo critico di Alice Vangelisti