Homo Homini Lupus
Mostra collettiva a cura di Roberta Vanali.
Comunicato stampa
Homo Homini Lupus
Chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza.
(Johann Wolfgang Goethe)
Adottato dal filosofo Thomas Hobbes e ripreso in seguito da Schopenhauer in riferimento all’egoismo, all’istinto di sopravvivenza e sopraffazione della natura umana, “Homo Homini Lupus”, proverbio del commediografo latino Plauto il cui significato è “l’uomo è lupo per l’uomo” - poiché ognuno vede nel prossimo un potenziale nemico che cerca di danneggiare gli altri usando qualunque strumento volto ad eliminare gli ostacoli al soddisfacimento dei propri desideri -, è il focus attorno al quale hanno riflettuto 10 artisti, con ambiti di provenienza e background differenti, ma con un'inclinazione comune a indagare il lato oscuro dell'esistenza umana.
Ermenegildo Atzori, Emanuele Boi, Riccardo Camboni, Paolo Decortes, Giuliano Giagheddu, Silvia Mei, Ruben Mureddu, Marco Pautasso, Damiano Rossi e Daniele Serra sono stati inviatati ad esplorare il drammatico abbrutimento del genere umano attraverso il medium pittorico. La predisposizione al male, la volontà oggettiva di nuocere il prossimo, la cieca e spesso gratuita malvagità che contraddistingue l'attuale epoca. L’epoca dell'andrà tutto bene in cui è la degenerazione esistenziale a farla da protagonista, che sta confluendo in un epilogo ancora più terribile alla luce del recente brutale e folle conflitto bellico. Ed è proprio da questo che muove Damiano Rossi con “Carcinogenic Sky” dove, tra figurazione ed astrazione, con un preciso senso di dinamismo che spezza la superficie pittorica per fare spazio a una nube tossica che tutto travolge e oscura, l’artista ci trasporta in un’atmosfera surreale carica di tensione e aggiunge: la pioggia sarà pianto, le lacrime saranno bombe, la nube metterà radici. Ma io vicino al precipizio starò sull’orlo, resisterò, e di fronte all’orizzonte oscuro, aspetterò l’alba. Stesso concetto preso in esame da Riccardo Camboni con “Ma l’amor mio non muore”, invito ad abbandonare le ostilità, a trasformare le armi in strumenti di libertà attraverso un codice linguistico di matrice pop che privilegia lo stato emotivo dei personaggi sempre in bilico tra realtà e contraddizione. Paradosso che ne stimola ulteriormente la riflessione.
Non perde mai di vista il pericolo, l’individuo che corre a perdifiato cercando di fuggire da esso, nell’opera di Ermenegildo Atzori “Escape”. Angoscia e panico trapelano da quella oscura figura dinamica. Impulsi incontrollabili indotti dalla paura ancestrale dell’ignoto e della morte, radicata nell’immaginario collettivo, che ci ha travolti con la pandemia e continua a non lasciarci scampo. E se Giuliano Giagheddu in “The Devils” mettendo insieme l’indelebile ricordo di un feroce rito atavico con la visione desunta da uno degli affreschi giotteschi di Assisi ricostruisce un’atmosfera fiabesca, sospesa e senza tempo, che conferisce maggiore cruenza ad una rappresentazione tra arte popolare e dimensione surreale, Silvia Mei con “The Dark Butterfly” rappresenta l’inganno, il seme dell’odio. La farfalla simbolo di leggerezza e libertà diventa perpetuo marchio nero impresso a fuoco sulla pelle, orientato a rappresentare il male assoluto, la misera incarnazione dell’ostilità e del rancore sotto mentite spoglie. Dal momento che, per parafrasare Anselm Grün, Il male si cela dietro la maschera della viltà, dietro la quale non posso sopportare che ci siano persone guardate con ammirazione. Bisogna gettarle nella polvere, coprirle di fango. Il tutto elaborato con un linguaggio pittorico estremamente stratificato e primitivo che affonda le radici nell’Art Brut.
Per Ruben Mureddu potere al potere è una peculiarità prettamente maschile di una conforme élite da salotto, da club esclusivi, da abiti inamidati e rigorosi occhiali da sole che tutto mascherano e confondono e dove il fulcro della rappresentazione risiede nella locuzione Mors tua vita mea, ovvero il fallimento di un individuo equivale inevitabilmente al successo per un altro, nell’incessante lotta per l’esistenza e ad armi impari. La stessa lotta per la supremazia dell’uno sull’altro che troviamo nell’opera di Emanuele Boi: “Carne”. Volti che si sovrappongono, si incastrano e si confondono producendo un inquietante viso convulso, dai tratti bestiali, mentre nel turbinio s’intravede una mano che cerca affannosamente di uscire dal tunnel. Visi debordanti, alienanti, al limite della deformazione plastica, sono realizzati con gesto impetuoso. Come quello al femminile concepito da Marco Pautasso, che emerge prepotentemente dal buio impersonificando l’eterno dualismo tra amore e odio, tra bene e male. Con un fare espressionista dissacrante unito a una gamma cromatica aggressiva per contribuire a infondere ambiguità e disagio.
“La felicità crudele” di Paolo Decortes è quella che si ritrova in una bambina che tortura e uccide un piccolo animale indifeso, metafora della sordida prevaricazione, secondo il principio del cieco dominio, abusando delle debolezze altrui. In questo mondo spietato dove brutalità e devianza incombono. Non è da meno l’atmosfera dark di “Waiting” nell’interpretazione estetico-decadente di Daniele Serra. La paura, l’incapacità e talvolta il rifiuto di comprendere il proprio simile, sono alla base della sua opera. La donna, terrorizzata dall’ombra dell’”uomo-lupo” che si nasconde nella foresta, è pronta ad attaccare ancor prima che esso faccia la sua comparsa. Ma quell’ombra è reale? La violenza genera violenza; l’odio genera odio e l’intransigenza genera altra intransigenza. E’ una spirale discendente, e alla fine non vi è che distruzione, per tutti”, direbbe Martin Luther King.
Roberta Vanali