Iconoclash. Il conflitto delle immagini
Mostra dedicata all’immagine attraverso le opere di un gruppo di artisti che entrano in dialogo con le collezioni e gli spazi espositivi del Museo di Castelvecchio.
Comunicato stampa
Negli ultimi anni il processo di creazione delle immagini si è velocizzato come mai nella storia. Ogni secondo si producono immagini della più svariata natura: fotografie, disegni, elaborazioni digitali, grafiche, emoticon. La tecnica e le nuove tecnologie, a partire dai cellulari, hanno alimentato questa sovrapproduzione. E’ come se il concetto del “pensare per immagini” teorizzato da Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane, e alla base del pensiero e dell’opera di Luigi Ghirri, sia diventato la modalità comune con cui la società legge il mondo. I social network ne sono forse il sintomo e una delle cause scatenanti più evidenti, creando un livello di realtà secondario, che diviene fondamentale per la diffusione e la notorietà di un evento, un fatto di cronaca, un oggetto, un’opera d’arte.
La nostra è una società ossessionata dalle immagini, che al suo interno presenta però anche tensioni di tipo opposto, iconoclastico, non sempre evidenti. Sono dovute sia a questioni ideologiche e culturali, sia a fattori materiali (l’usura del tempo, l’impossibilità di preservare e archiviare ogni singola immagine, gli sconvolgimenti sociali, finanche l’eccessiva fruizione di massa), sia all’incontro con culture differenti. Il recente processo di digitalizzazione e smaterializzazione delle immagini porta a interrogarci su quanto di quello che è oggi presente nei nostri computer: esisterà anche solo tra pochi anni, vista la precarietà dei dispositivi di archiviazione e l’esposizione sempre più frequente delle compagnie che li hanno in gestione ad attacchi hacker e di cyberterrorismo?
E’ come se l’attualità, e a intervalli regolari anche la storia, ci facesse capire il potere delle immagini e dell’arte, la loro capacità di essere ancora degli “oggetti scomodi”, che fanno paura, danno fastidio, possono ferire, possono modificare la realtà o la sua percezione. Non è solo il cosiddetto mondo dell’arte a pensare che le immagini possano cambiare il mondo, sono i fatti che lo attestano. Alcune delle più antiche testimonianze della civiltà umana, come le città di Ninive e Palmira, hanno di recente subito distruzioni e sfregi che hanno segnato il corso della storia. Una vignetta su di un giornale satirico ha scatenato un’azione di guerra nel centro di Parigi. L’immagine del corpo dell’uomo e soprattutto della donna, o della sessualità ad essi collegata, è ancora oggi un campo in cui il confine tra libertà e rispetto risulta estremamente labile.
Ma la “cancellazione” e la “censura” delle immagini è dovuta talvolta a fattori ancora più subdoli, difficili da controllare. Si pensi alla fragilità di città come Venezia, sottoposte alla spinta di un flusso turistico sempre più ampio e fuori controllo; o alla precarietà di un patrimonio artistico nei confronti di fenomeni naturali come terremoti e alluvioni; o all’impossibilità di “vedere” veramente opere troppo sovraesposte, prigioniere della loro stessa immagine. La creazione continua di nuove immagini infatti, o la moltiplicazione di quelle più note, con un approccio assimilabile ai processi inflazionistici monetari, non sono forse una forma di depotenziamento, una svalutazione del concetto stesso di immagine, che diventa in tal modo una sorgente arida per il troppo approvvigionamento?
La mostra vede nell’inedito ruolo di curatori un trio composto dal critico Antonio Grulli e da due collezionisti: Diego Bergamaschi e Marco Martini. I tre in passato hanno già curato assieme dei progetti firmandosi Eddy Merckx.
Gli artisti si muoveranno su di una sottile linea di confine che separa l’amore e l’ossessione per l’immagine dal desiderio, anch’esso ossessivo, di annullarla e cancellarla. Troverete immagini sfregiate (Nazgol Ansarinia, Luca Bertolo, Jiri Kolar, Nicola Samorì, Mimmo Jodice), distrutte (Gianni Politi), tamponate (Flavio Favelli, Vincenzo Simone), occluse (Jesse Ash, Francesco Carone), frammentate (Matteo Rubbi, Davide Trabucco), negate (Francesco Carone, Ryan Gander, Elad Lassry, Simon Starling), corrose (Paola Angelini, Stefano Arienti, Giulia Cenci, Paolo Gioli, Ketty la Rocca). Altre avranno raggiunto la monocromia e la totale assenza di elementi data da un sovraccarico di informazioni che genera un black out visivo (Alessandro di Pietro, Ryan Gander, Fabio Mauri, Mandla Reuter). Alcuni degli artisti coinvolti hanno fatto di questa attitudine iconoclasta una delle loro cifre stilistiche e tematiche. Altri ne hanno anche scritto: tra tutti segnaliamo il dialogo tra Luca Bertolo e Flavio Favelli pubblicato l’8 novembre 2016 sulla rivista online Doppiozero.