Immagini dal Sottosuolo

Informazioni Evento

Il titolo, Immagini dal Sottosuolo, all’interno del quale sono racchiusi e definiti un gruppo di giovani e talentuosi artisti, vuole fin da subito evidenziare una precisa volontà stilistica, un simil sentire che si sviluppa fra operatori estetici di diversa provenienza e formazione, instaurando un rapporto con il celebre capolavoro di F. M. Dostoevskij Memorie dal Sottosuolo.

Comunicato stampa

“Che il lupo cattivo vegli su di te”.

Delle coloratissime e ripide montagne russe, la storia dell’arte può essere ben rappresentata da questa immagine. Fra i principali studiosi di Giorgio De Chirico, Renato Barilli ben comprese l’esistenza di un meccanismo dialettico per il quale, dopo essersi spinti troppo in una direzione, si deve verificare, necessariamente, un picco di ritorno di verso contrario. Tale effetto passò dal campo della teoria a quello della pratica nel 1974, all’interno dell’allora Studio Marconi, grazie a una fondamentale e anticipatrice mostra dal titolo La ripetizione differente. La ragione critica dell’esposizione milanese prendeva spunto dal pensiero del filosofo francese Gilles Deleuze, secondo il quale, un fenomeno può essere compreso soltanto nel suo ripetersi al variare delle circostanze, o meglio, nel suo ripetersi con differenze. Due furono gli artisti che con maggior evidenza esemplificarono tale base teorica: Salvo e Luigi Ontani. Le opere dei due allora giovani operatori estetici proponevano uno stridente ritorno verso la “pittura”, realizzato attraverso l’utilizzo di note squillanti di colore, disegni quasi fanciulleschi e immagini fotografiche costruite per fingersi altro da sé e immergersi in un mondo fantastico. Erano quelli anni bui per la nostra Repubblica e dal forte accento concettuale e minimalista ma già si vedevano emergere i germi di un ribaltamento verso quel fare pittorico che esploderà negli anni Ottanta. Nel periodo dominato dal concettuale la pittura, con la sua millenaria storia, non era quindi sparita per sempre ma aspettava solamente le condizioni minime di vita per riemergere e impossessarsi, attraverso inedite espressioni, di un habitat in continua evoluzione. Tutto ciò si ripropose, con uno spasmodico accorciamento del tempo trascorso fra fasi esplosive e fasi implosive, fino ai giorni nostri. Ai felici anni di dominio della Transavanguardia e dei movimenti a lei vicini si contrappose l’arrivo del neo-concettuale degli anni Novanta fino a giungere nella spirale impazzita degli anni Duemila dove il milieu post-mediale concedette e concede oggi rapidi e spesso ibridi passaggi fra paradisi iper-tecnologici e ritorni verso un intimistico e caldo fare manuale.

Attraverso un profondo, sereno e coraggioso progetto AteliermultimediGalerie ha deciso di dedicare la sua voglia espositiva proprio a un particolare modo di concepire la pittura in questi nostri Anni Zero. Nasce così una mostra manifesto che presenta al pubblico viennese, generalmente affezionato alla fotografia, una ben precisa volontà di ritornare a dipingere, la stessa che ritroviamo in Andrea Borgonovo, artista catalizzatore e fondatore della sede espositiva austriaca.

Il titolo, Immagini dal Sottosuolo, all’interno del quale sono racchiusi e definiti un gruppo di giovani e talentuosi artisti, vuole fin da subito evidenziare una precisa volontà stilistica, un simil sentire che si sviluppa fra operatori estetici di diversa provenienza e formazione, instaurando un rapporto con il celebre capolavoro di F. M. Dostoevskij Memorie dal Sottosuolo. Il racconto lungo, scritto in due parti nel 1864, pone fra i suoi temi principali un acceso attacco agli ideali della nascente società positivistica, quella società che oggi definiamo del “dominio della Tecnica”. A questa visione scientifica e precisamente misurabile della vita si contrappone il libero volere e sentire di quello che potremmo definire un uomo romantico, un uomo vittima di quell’eccesso di coscienza che non gli permette di rifugiarsi nella sola vita attiva e che lo porta a interrogarsi, necessariamente, su ciò che lo circonda. L’essere umano che si racconta nel testo è una creatura che si sente costretta a rinchiudersi al buio di un luogo sicuro, in se stessa, ma che a differenza dell’uomo moderno, che si arrende alle leggi di natura, a quello che lo scrittore russo definisce il “muro di pietra”, concepisce i limiti ma non si rassegna a essi. L’abitante del sottosuolo è un essere che non si arrende a una vita priva d’interrogativi spinto da quell’eccesso soffocante, da quella volontà irrazionale che urla dentro di lui. In ugual misura, le opere esposte a Vienna presentano un fare pittorico che nasce da una prepotente volontà espressiva che brucia nell’animo degli artisti, da un’esigenza vitale che corre in bilico su quel concetto di normalità ormai così poco significativo, inutile, in questi nostri tempi che non concedono spazio a restrittive definizioni. Come durante la temperie espressionistica d’inizio Novecento, l’arte non è più chiamata a una rappresentazione oggettiva del mondo ma le è concesso il privilegio di farsi tramite della soggettività dell’individuo. Attraverso un fare che riporta a diretto contato con il fascino magmatico dei materiali, le realizzazioni in mostra si presentano come liberazione dell’io dei suoi artefici, come un ritorno diretto, quasi affettuoso, verso una superficie pittorica che si trasforma in diario privato dove far correre veloci le emozioni che traboccano dal proprio profondo. Queste tele diventano lo specchio di un sentire comune condiviso da molti ragazzi nati attorno agli anni Ottanta, ragazzi cresciuti in un’epoca non scandita da grandiosi avvenimenti storici ma da incredibili e spesso irrazionali tragedie, ragazzi che si sentono soli e dispersi in una società ricca di connessioni e così omologante da riuscire ad annullare chi non si allinea a essa. Il filosofo monzese Umberto Galimberti parla di un “ospite inquietante”, di un mondo dominato da una Tecnica che non tende a uno scopo e che non produce realtà ma funziona e basta. In questo inferno di macchine, ironicamente intelligenti, alcuni artisti, sentendo venir meno il rapporto diretto con le persone, creano mondi dove fuggire liberi, spazi che riproducono il proprio essere interiore dando sfogo all’irrinunciabile necessità di riprendere una fruizione umana del nostro stare al mondo.

Se guardiamo le opere presenti nella mostra viennese ci accorgiamo di come esigenze simili siano espresse con materiali e stili che variano di artista in artista, mantenendo però un sapore comune che ben le unisce, confermando così la scelta critica intorno a cui è nato l’intero progetto.

Unica artista austriaca in mostra, le realizzazioni di Elisa Schlifke ci conducono in un universo che oscilla fra spontaneità infantili e la grottesca immaginazione dei maestri fiamminghi vissuti nel Quattrocento. Nella più libera volontà di ricerca espressiva, che tocca vari campi della produzione estetica, le opere realizzate mantengono una ben precisa identità al di là delle tecniche utilizzate e dei soggetti scelti. La superficie diviene un campo di battaglia sul quale non esistono regole, si passa rapidamente da un graffiante segno grafico, al dilagare del colore fino all’inserimento di scritte che veicolano gli stati d’animo dell’artista e nulla spiegano. Atmosfere secessioniste e fumetti convivono e si amalgamano in opere che mantengono sempre l’innocenza di chi le ha create. Non c’è rabbia ma solo il dilagare di una personale visione del mondo, dove realtà e fantasia si fondono in un sogno diurno.

Nata a Cagliari, e quindi italianissima, è Silvia Argiolas. Con lei l’utilizzo di un colore brillante, smaltato, da viaggio lisergico, ci conduce in squillanti mondi espressionisti, dove il soggetto femminile domina spesso la scena. Il suo fare pittorico, maturo e coinvolgente, libera la carica espressiva ed emotiva dell’artista creando realtà liquide e feroci dalle quali traspaiono gli stati d’animo della pittrice insieme e tutta l’inquietudine strisciante di cui è pregno il mondo in cui viviamo. Partendo da un’esplosione controllata del proprio io, nelle tele esposte in mostra, si ritrova una viva e bruciante volontà femminile in bilico fra cattiveria e debolezza. Nata sul finire degli anni settanta, Silvia Argiolas è oggi un’affermata artista nel cui lavoro è ben evidente quel fondamentale e difficile passaggio, fra due concezioni diverse di fare arte e pittura, avvenuto in questo “nuovo” millennio.

È una linea vorticosa e potente, dalla grande carica espressiva, una linea che si trasforma in solco continuo di magmatica materia quella che ben caratterizza il fare espressivo del pittore napoletano Adriano Annino. Le sue opere variano dal disegno alla pittura su tela creando atmosfere primordiali, proponendo una natura selvaggia che si rifà alla poetica del gruppo CO.BR.A senza disdegnare la purezza e la ferma determinazione di un puro segno grafico che in alcuni casi si fa caotica nuvola tellurica.

Quella di Andrea Borgonovo è invece una figurazione più classica, un approcciarsi al fare artistico che rispecchia una profonda conoscenza della storia dell’arte, conoscenza di un passato che si fa presente già nei modi con cui l’artista firma i suoi lavori. Le figure femminili esposte in mostra, dall’età indecifrabile, vivono in un’atmosfera sospesa che trasmette una leggera inquietudine e che ci trasporta in un non luogo simile a quello che pervade le tele dal pittore francese Balthus.

Andrea Fiorino è oggi un operatore estetico in piena evoluzione. Nei disegni presenti a Vienna scompaiono le note squillanti di quella sua materia-colore che ricorda il Pongo con cui giocavamo da piccini e i suoi personaggi, metà figli dei “generali “ di Enrico Baj e metà cuginetti delle creature che popolano il mondo dei cartoni per bambini, si fanno più introspettivi e delicati. In un fare artistico che lascia molto spazio alla ricerca autobiografica, questi disegni fanno trapelare tutta la tristezza di chi vive in un mondo che non sente suo, sotto lo sguardo di persone lontane.

Volti di plastica si sciolgono sotto il calore dei riflettori di questa nostra società dello spettacolo globale. La materia utilizzata da Dario Molinaro non è più quella bruta degli anni Cinquanta ma proviene dalla discarica del mondo di celluloide. I visi dei suoi personaggi perdono ogni caratteristica fisiognomica ma mantengono comunque la riconoscibilità di un soggetto che si è fatto stereotipo. Viviamo in un mondo dove non conta il “chi sei” ma il “cosa fai”, allora ben vengano dei ritratti anonimi.

Partendo da un supporto fotografico, dove sono presenti immagini in bianco e nero della bella società dell’Ottocento, Nico Mingozzi aggredisce i soggetti degli scatti svelando le note di profonda inquietudine che dominavano gli animi di quel mondo e che oggi dominano quelli del nostro. Utilizzando varie tecniche artistiche è portato alla luce quell’universo profondo che si cela sotto a una società oppressiva, evidenziando un profondo malessere e quell’ansia sottile di chi si sente solo davanti all’idea della morte.

Viviamo oggi in una società liquida, in un’epoca post-moderna che si avvia verso il suo tramonto e che, vista dai suoi titoli di coda, appare davvero come un periodo di passaggio; un individualismo da consumatore seriale caratterizza i barbari abitanti di questi Anni Zero. All’interno dei nuovi villaggi nomadi di silice si nascondono però anche dei luminosi abitati del sottosuolo, di un sottosuolo emotivo che conduce verso una pittura che non ha paura di ritornare a guardare dentro l’anima, di farsi veicolo delle angosce e delle paure degli uomini. Una pittura che, come un seme perduto nel sottosuolo, trova la forza di germogliare e di donarci le opere che possiamo ammirare alle pareti della galleria viennese, opere che ci risvegliano dal torpore tecnologico e ci obbligano a pensare a quell’umano che si agita ancora dentro di noi.

Marco Roberto Marelli