Into Carrara
Addo Lodovico Trinci sarà presente nella galleria di Nicola Ricci in piazza 2 Giugno con la recente produzione di fotografie stampate su carta vetrata,che dialogano a distanza con l’ultima delle identità assunte dal piano terra del palazzo storico, il quale per molti decenni ha accolto la ferramenta che è divenuta punto di riferimento per gli abitanti di Carrara e per i molti scultori qui attivi.
Comunicato stampa
Inaugura sabato 25 febbraio 2012, alle ore 17.00, la nuova mostra della Galleria Nicola Ricci a Carrara. Si tratta di tre mostre personali pensate appositamente per due sedi espositive: la galleria, sita in Piazza 2 Giugno, 14 I° piano Galleria D’Azeglio (54033 Carrara) e lo spazio blu corner – project room sito nella storica piazza Alberica angolo via Loris Giorgi a Carrara.
La mostra, curata da Nicola Davide Angerame, è pensata come un dialogo “a distanza” tra le opere di Vittorio Cavallini, Filippo Manzini e Addo Lodovico Trinci chiamati a produrre lavori per gli spazi, in primo luogo quello storico nell'antico palazzo nobiliare dei Conti Pisani. Il piano terra del palazzo porta i segni dello stratificarsi delle epoche e viene recuperato dal suo abbandono e riportato in vita attraverso un dialogo con le installazioni di Filippo Manzini e Vittorio Cavallini.
I due proporranno opere site specific, incentrate su una poetica del coinvolgimento a distanza, che affronta la densità emotiva degli spazi con distacco, producendo installazioni in grado attraversare o suscitare, con uno scarto laterale, nuovi sensi possibili di un luogo tanto carico di testimonianze.
Addo Lodovico Trinci sarà invece presente nella galleria di Nicola Ricci in piazza 2 Giugno con la recente produzione di fotografie stampate su carta vetrata, che dialogano a distanza con l'ultima delle identità assunte dal piano terra del palazzo storico, il quale per molti decenni ha accolto la ferramenta che è divenuta punto di riferimento per gli abitanti di Carrara e per i molti scultori qui attivi.
In questo dialogo “alla pari” tra lavori e spazi espositivi, le opere “usano” lo spazio come un campo di forza entro cui raccogliere energie sopite, istantanee ispirazioni o meditazioni più profonde che vedono oltre la mera fisicità del luogo, laddove lo spazio fisico e quello mentale si fondono per dar vita ad una riflessione visiva realizzata per oggetti.
Estratto dal testo in catalogo della mostra
Voci dallo spazio. Oggetti.
di Nicola Davide Angerame
L'oggetto è il comune denominatore e il mezzo tramite cui questa mostra “gioca” con lo spazio e viene da esso giocata. È l'oggetto ad aprire lo spazio, ormai chiuso dentro una identità in frantumi, lasciata in abbandono ma non per questo meno forte.
La lingua di questi artisti usa l'oggetto come una particella sintattica elementare per dare voce allo spazio prima che esso diventi luogo, ovvero per esaltare le forme specifiche e la materia specifica del palazzo Pisani ma prima che esso divenga il luogo storico, ovvero quella ferramenta dove per decenni hanno albergato oggetti di ogni forma e dimensione. Oggetti tanto diversi da quelli dell'arte: oggetti d'uso quotidiano, che sono vivi fintanto che compiono la propria funzione. Funzione che ha spesso a che vedere con la trasformazione di altre cose. Gli oggetti di questa mostra invece non servono, il loro senso non si consuma nella loro funzionalità, ma si allarga silenzioso fino ad assumersi la responsabilità di aprire lo spazio, traducendo quei suoi volumi sospesi nel tempo in una “concrezione” capace di creare con tale vastità una relazione segnica, sensibile e perfino sensuale.
Questa concrezione prende il volto della piega nelle opere di Filippo Manzini. La carta, il legno e il metallo usati dall'artista nelle sue installazioni si traducono in oggetti di esili dimensioni, dal respiro fragile, dal corpo gracile ma determinato, dalla consistenza impermanente e una personalità impercettibilmente antropomorfa. Immediatamente ci sentiamo vicini a questi “attori” che sembrano dialogare tra loro, parlando ciascuno con un proprio dialetto, decretando forse differenti e assurdi assiomi ipotetici e bislacchi sulla non linearità dello spazio, sulla possibilità sempre aperta che esso ha di accogliere l'assurdo, il non finito o l'inconsistente, in quella sua geometria che resta ancora da scoprire. Sono sculture minime, che declamano la propria semplice presenza come se fossero scarti di un discorso, quello della scultura tradizionale, per il quale la compiutezza, la solidità e la grandezza non sono valori assoluti ma soltanto possibilità di definire lo spazio come quel normale contenitore di valori d'uso che conosciamo. Dalle case che abitiamo alle strade e le piazze che percorriamo, siamo spesso preda di uno spazio progettato per dare riparo e sicurezza. La geometria si piega a questa necessità. Quella di Manzini no, poiché si fa grammatica di un discorso diverso e si presenta attraverso una “anti-scultura”, una spontanea proliferazione di forme che procede per piegature. Questa, la piegatura, è non soltanto l'elemento processuale di base attraverso il quale Manzini traduce la materia in forma, ma è anche una “idea dello spazio tout-court”: un po' come la curvatura, che rappresenta per la relatività di Einstein non solo un modello teorico, ma anche una idea più ampia tramite cui pensare lo spazio nella sua più nuda “potenza”, intesa nei due sensi della possibilità e della necessità.
Attorno all'idea di spazio come potenza, sembra ruotare anche il lavoro di Vittorio Cavallini dal momento che il processo usato dall'artista per giungere alla creazione sembra quello di mettersi “sotto carica”. Come se fosse un condensatore, o un congegno a scatto, Cavallini entra nello spazio per restarvi e qui caricarsi di energia. Non vi è nulla di mistico, soltanto la necessità di pazientare per trovare la voce muta del luogo, la giusta prospettiva attraverso cui “sentire” lo spazio geometrico e fisico: la somma dei vuoti e dei pieni, delle trasparenze e delle opacità, delle aperture e dei confini. Metabolizzati i quali, l'artista procede alla realizzazione di installazioni che possono essere il frutto di un gesto concettuale, come il privarsi per un mese della propria automobile, oppure che possono coinvolgere la creazione di oggetti alquanto “complicati”, nel senso che su di essi vengono operate sperimentazioni materiche, processualità pseudo-alchemiche che rendano l'oggetto all'altezza del rapporto che l'artista instaura con lo spazio. Così lo spazio aperto del bosco trova in uno stereo ricoperto di resina il suo oggetto-alter-ego, testimone di una natura soffocata dalla hybris umana. La concrezione, oggettuale ed oggettivante, di un tale sentimento dello spazio, rende Cavallini una sorta di poeta beat aperto alla sperimentazione, intransigente verso la produzione di manufatti che non siano autenticamente prodotti da una sua reazione al luogo. Tale reazione può essere allergica, ma per lo più è sinergica e spesso sfocia nella sinestesia: dove un suono diviene scultoreo, dove una fotografia traduce un processo e dove un oggetto esprime una idea prima ancora che un frammento di realtà.
Anch'egli rappresentante di una poetica in cui la relazione con lo spazio viene tradotto attraverso la costruzione di oggetti minimali ed energetici, Addo Lodovico Trinci ha elaborato per molti anni una serie di installazioni in ceramica e materiali vari, utilizzati come porte percettive che visualizzano i punti cardinali dentro luoghi non orientati. I suoi interventi rendono visibili le linee di forza e le polarità energetiche che tornano visibili dentro gli spazi chiusi, con i colori che dichiarano l'interesse che l'artista nutre per l’antica dottrina cinese del Feng Shui. Le opere qui presentate appartengono alla serie più recente di fotografie stampate su carta abrasiva, che Trinci utilizza per sondare gli oggetti a lui più prossimi. Sono “ritratti” di architetture interne dentro cui l'artista vive, oppure sono parti delle proprie installazioni e delle proprie sculture. Pur cambiando linguaggio ed espressione, Trinci rimane in relazione con il senso dello spazio, cercandolo nella luce metafisica dei suoi scatti o nelle parti ingrandite di oggetti che diventano particelle linguistiche di un discorso interrotto e ripreso continuamente. Il suo linguaggio tende all'astrazione ma la particolarità della stampa su carta abrasiva produce sensazioni impercettibilmente tattili: la fotografia tende verso effetti sottilmente e potentemente pittorici. Le immagini assumono una fluidità ulteriore che rompe la brutale durezza che normalmente gli oggetti possiedono se fotografati. Una metafisica della luce si fa strada per trasformare il corpo duro e sordo dei modelli in linee fluenti, in volumi aggraziati.