Invernomuto – Santa Lucia
Mostra personale.
Comunicato stampa
Racconto di Francesco Urbano Ragazzi scritto in occasione della mostra, forse nella versione definitiva sarà ancora più lungo.
RISVEGLI
Io, prima di tutto, ero vivo. Nessun dubbio su questo. Ma il motivo per cui lo sapevo, di essere vivo, era purtroppo davvero spiacevole.
Da qualche mese a questa parte, ogni giorno verso le sei di sera, mi cominciavano a lacrimare gli occhi: entrambi e copiosamente appena il sole tramontava dietro ai palazzi. Gocce che percepivo elastiche e un po’ viscose scendevano senza sosta ai lati del mio naso, mi si appoggiavano sulle labbra, scendevano ancora fino alla punta del mento, al centro del quale si accumulavano. E da lì poi cadevano, finalmente, oltre la superficie della mia pelle. Poiché ogni giorno quell’inarrestabile sgocciolamento durava per più di qualche ora, dapprima cercavo di arrestarlo tamponando l’estremità dei dotti lacrimali con un fazzoletto; poi però la mia mano cominciava a indolenzirsi, a poco a poco mi stancavo di esercitare quella lieve pressione, ed ero costretto mio malgrado ad arrendermi. Lasciavo allora scorrere il torrentello di lacrime così come veniva, cercando di leccare con la lingua quante più gocce potessi, di tanto in tanto asciugando le molte che mi sfuggivano con la manica del maglione.
La lacrimazione non era indolore. Già nei primi minuti di quel pianto senza motivo i miei bulbi iniziavano a infiammarsi, regalandomi una fastidiosa sensazione di pizzicore che cresceva di intensità man mano che il tempo passava. Era come se la superficie dei miei occhi diventasse a poco a poco un grande lago in cui cadevano infiniti elettrodomestici accesi.
Ecco la dolorosa prova della mia esistenza! Era sufficiente un Cartesio un poco ferrato in oftalmologia per dimostrarla. Da quando iniziava alle sei di sera fino a quando terminava molte ore più tardi, per tutto il tempo pensavo e ripensavo a quel lacrimare. Lacrimavo e pertanto ero vivo, ero vivo fintantoché lacrimavo. In quelle condizioni, non potevo che pensare a me stesso incessantemente.
Come sempre accadeva nel momento in cui l’inspiegabile fenomeno si ripresentava, anche quella sera ero seduto davanti al computer per sbrigare qualche lavoro di poca importanza. Iniziai allora, ancora una volta, un esercizio di meditazione che mi concedeva un po’ di pace, facendomi dimenticare il mio lacrimevole ego. Era diventato ormai un rituale.
L’esercizio non era complicato né mi era stato insegnato. Facevo piuttosto istintivamente quello che fanno tantissimi esseri umani quando vogliono perdere la cognizione del tempo e di sé stessi. Aprivo Chrome a tutto schermo sul monitor del computer e iniziavo a cercare, e cercare, e cercare.
Dopo molte ore, la ricerca mi portava a battere territori inimmaginabili, ma il punto di partenza era più o meno sempre lo stesso: scrivevo a caso le parole corrispondenti ai sintomi che sentivo di avere e leggevo i risultati sul motore di ricerca, saltando di pagina in pagina con ritmo sempre più insofferente. Non so se per troppa concentrazione o per troppa distrazione, ma in pochi minuti non percepivo più di avere un corpo, e con esso quei due occhi umidi e in fiamme. Senza accorgermene diventavo nulla, il mondo attorno a me diventava nulla, mentre le informazioni che accumulavo finivano per coincidere col mondo, col tutto.
La routine era più o meno la stessa. A cambiare, col passare dei giorni, era stato soltanto il mio stile di scrittura. Nei primi tempi, digitavo a caso lemmi piuttosto generici: lacrimazione, dolore agli occhi, malattie agli occhi. Poi le descrizioni si erano fatte più precise: persistente lacrimazione con bruciore agli occhi. Verbose: inarrestabile lacrimazione con infiammazione concentrata sul perimetro di entrambi i bulbi oculari, sporadiche teleangectasie. Quasi poetiche o sfacciatamente ermetiche: occhi lacrimanti si infiammano alla sera. Fino a tornare alla semplicità iniziale ma con qualche trucco da cercatore pro: “lacrimazione” persistente + “infiammazione” + “occhi” + related:humanitas.it. E così avevo finito per credermi discretamente esperto di almeno una ventina tra disturbi e malformazioni, che però non coincidevano mai, per un motivo o per un altro, con quello di cui soffrivo io.
Congiuntivite (virale, batterica o allergica), blefarite, cheratite, distacco della retina, glaucoma, uveite, sindrome di Sjögren, cellulite orbitaria, febbre da fieno, herpes, blefarospasmo, disturbi della superficie oculare, condropatia corneale, tumori oculari o palpebrali, pterigio, nevralgia del trigemino, sindrome dell'occhio secco. Sapevo tutto di questi argomenti, ma questo tutto non serviva proprio a nulla. Ero passato dalla consultazione di portali divulgativi come my-personaltrainer.it, medicitalia.it, farmacoecura.it, starbene.it, alla lettura di pagine dedicate all’omeopatia, alla fitoterapia, allo yoga e all’ayurveda; da lì, alla frequentazione di forum i cui utenti, sparuti e paranoici, proponevano rischiosi rimedi naturali o l’uso massiccio di allucinogeni. Approdato alla cinquantesima pagina dei risultati offerti dal motore di ricerca non distinguevo più il verosimile dal falso. Le informazioni che incameravo si mescolavano in un unico piano d’irrealtà che sospendeva il mio giudizio. Cercando trovavo tutto, tranne la soluzione che stavo cercando.
Di andare da un dottore non se ne parlava. Non perché avessi paura di affrontare una potenziale diagnosi infausta. Ma per pigrizia, o per una strana forma di smemoratezza. Durante il giorno, quando gli ambulatori erano aperti, i miei occhi ritornavano normali. Se ne stavano al loro posto senza darmi fastidio, come se sparissero dalla mia vista. Dimenticavo perciò l’urgenza di farmi vedere da un dottore fin quando l’effluvio non ripartiva al primo buio della sera.
L’esercizio di meditazione che praticavo davanti al computer era molto efficace, ma provocava un effetto collaterale piuttosto prevedibile. Implicando un discreto sforzo visivo, le molte ore trascorse a fissare il monitor mi facevano sì scordare il dolore per qualche ora, ma allo stesso tempo lo peggioravano. Più mi perdevo nei bagliori dello schermo e meno sentivo la mia condizione; meno sentivo la mia condizione e più i miei occhi si consumavano. Puntualmente, dopo una buona mezz’ora trascorsa in uno stato d’incosciente impermanenza, una nuova scossa dolorosa mi costringeva a tornare nel mondo.
Quella sera, mentre l’ultima fitta ancora bruciava sotto le mie palpebre, mi tornò in mente di aver letto da qualche parte una frase filosofica che forse faceva al caso mio. A dire la verità mi sembrava riguardasse il mal di denti, ma ero sicuro centrasse con ciò che stavo vivendo. La sentenza in questione diceva a grandi linee così…
Tale by Francesco Urbano Ragazzi written for the exhibition, maybe in the final version it will be even longer.
AWAKENINGS
I was alive, to begin with. There is no doubt whatever about that. But the reason I knew it, that I was alive, was sadly unpleasant.
For the past few months, every day around six o'clock in the evening, my eyes began to water: both and copiously as soon as the sun set behind the buildings. Drops that I perceived to be elastic and somewhat viscous would descend unceasingly to the sides of my nose, rest on my lips, descend again to the tip of my chin, in the center of which they would accumulate. And from there they would then fall, finally, beyond the surface of my skin.
Since every day that unstoppable dripping lasted for more than a few hours, at first I tried to stop it by dabbing the end of the tear ducts with a handkerchief; but then my hand began to get sore, gradually I grew tired of exerting that slight pressure, and I was forced in spite of myself to give up. I would then let the rivulet of tears flow as it came, trying to lick up with my tongue as many drops as I could, occasionally wiping away the many that escaped with the sleeve of my sweater.
The tearing was not painless. Already within the first few minutes of that weeping for no reason, my bulbs began to inflame, giving me an uncomfortable tingling sensation that grew in intensity as time passed. It was as if the surface of my eyes gradually became a large lake into which endless lighted appliances fell.
Here was the painful proof of my existence! It was enough for a Cartesio a little well skilled in ophthalmology to prove it. From the time it began at six o'clock in the evening until it ended many hours later, all the time I was thinking and rethinking that tearing. I was tearing and therefore I was alive, I was alive as long as I was tearing. Under those conditions, I could only think of myself incessantly.
As always happened when the inexplicable phenomenon occurred again, that evening I was sitting in front of the computer doing some unimportant work. I then began, once again, a meditation exercise that granted me some peace, making me forget my tearful ego. It had now become a ritual.
The exercise was not complicated nor had I been taught. Rather, I was instinctively doing what so many human beings do when they want to lose track of time and of themselves. I used to open Chrome full screen on my computer monitor and start searching, and searching, and searching.
After many hours, the research would lead me to beat unimaginable territories, but the starting point was more or less always the same: I would randomly type words corresponding to the symptoms I felt I had and read the results on the search engine, jumping from page to page at an increasingly impatient rhythm. I don't know whether due to too much concentration or too much distraction, but within minutes I no longer sensed that I had a body, and with it those two wet, burning eyes. Without realizing it I became nothing, the world around me became nothing, while the information I accumulated ended up coinciding with the world, with everything.
The routine was more or less the same. What had changed, as the days passed, was only my writing style. In the early days, I would randomly type rather generic headwords: tearing, eye pain, eye disease. Then the descriptions had become more precise: persistent tearing with burning eyes. Verbose: unstoppable tearing with concentrated inflammation on the perimeter of both eyeballs, sporadic telangiectasias. Almost poetic or shamelessly hermetic: watery eyes flare up in the evening. All the way back to the initial simplicity but with some pro-searcher tricks: persistent "tearing" + "inflammation" + "eyes" + related:humanitas.it. And so I had ended up believing myself to be a discreet expert on at least about twenty disorders and malformations, which, however, never coincided, for one reason or another, with what I was suffering from.
Conjunctivitis (viral, bacterial, or allergic), blepharitis, keratitis, retinal detachment, glaucoma, uveitis, Sjögren's syndrome, orbital cellulitis, hay fever, herpes, blepharospasm, ocular surface disorders, corneal chondropathy, ocular or palpebral tumors, pterygium, trigeminal neuralgia, dry eye syndrome. I knew all about these topics, but this all was of no use at all. I had switched from consulting popular portals such as my-personaltrainer.it, medicitalia.it, farmacoecura.it, starbene.it, to reading pages devoted to homeopathy, phytotherapy, yoga, and ayurveda; from there, to frequenting forums whose scattered and paranoid users proposed risky natural remedies or the massive use of hallucinogens. Having arrived at the fiftieth page of results offered by the search engine, I no longer distinguished the plausible from the false. The information I was foraging for blended into a single plane of unreality that suspended my judgment. By searching I was finding everything except the solution I was looking for.
Going to a doctor was out of the question. Not because I was afraid of facing a potential inauspicious diagnosis. But because of laziness, or a strange form of forgetfulness. During the day, when the clinics were open, my eyes returned normal. They stayed in place without bothering me, as if they disappeared from my sight. I therefore forgot the urgency of seeing a doctor until the effluvium started again at the first darkness of evening.
The meditation exercise I practiced in front of the computer was very effective, but it caused a rather predictable side effect. Involving a fair amount of eye strain, the many hours spent staring at the monitor would yes make me forget the pain for a few hours, but at the same time make it worse. The more I lost myself in the glare of the screen, the less I felt my condition; the less I felt my condition, the more my eyes wore out. Punctually, after a good half hour spent in a state of unconscious impermanence, a new painful jolt would force me back into the world.
That evening, as the last twinge still burned under my eyelids, it came back to me that I had read somewhere a philosophical phrase that perhaps suited me. Actually, it seemed to me to be about toothache, but I was sure it centered on what I was experiencing. The sentence in question, in broad strokes, ran something like this…