La manifattura Chini – Almanacco di fasti e nefasti. Settembre le foglie
Comunicato stampa
Agli inizi del Novecento una parte rigorosa e austera dell’Architettura, quella che avrebbe
dominato il secolo, dichiarò guerra alle altre arti visive giungendo a tracciare, tra lei e loro,
un fossato ideologico che solo in rari casi è stato superato.
Si può dire che quella dell’architetto viennese Adolf Loos, autore del piccolo ma esplosivo
libro Ornato e Delitto (1908), sia stata una dichiarazione di indipendenza dell’Architettura,
una dichiarazione di autarchia e di supremazia affermata sulla Scultura, sulla Pittura e sulla
Decorazione, che per millenni avevano viaggiato e dialogato con le forme del costruire.
Quel libro partiva da una profonda critica alla Secessione, che proprio a Vienna aveva
promosso l’ultimo trionfo dell’Ornamento. Dopo la lontana stagione di Bisanzio, i primi
anni del Novecento europeo avevano portato la Decorazione a un inedito protagonismo, che
riscattava quella disciplina dal ruolo arcaico di ‘arte applicata’, ponendola sul terreno di una
piena dignità creativa.
Sul tema della Decorazione, in quella cruciale stagione storica, si contrapposero pensieri
opposti, da una parte stavano l’idea di modernità affermata da Gaudì in Spagna e dalla
Secessione in Austria e dalla parte avversa la visione razionalista di Le Corbusier in Francia
e di Gropius in Germania.
Senza per questo ridurne i valori estetici e la libertà di pensiero di quei grandi pionieri, va
detto che il Razionalismo trovò un alleato potente nella committenza, nei costruttori edili,
che videro in quella ideologia dell’arte, nella sua essenzialità, una immensa fonte di
risparmio. Fu oggettivamente questa la ragione della schiacciante vittoria della struttura
sulla ramificazione, del pensiero minimalista su quello poliedrico.
Da veicolo della modernità e della fantasia le arti applicate vennero, in breve, confinate a
orpello del passato e sopravvissero solo nella marginalità, nella retroguardia del gusto.
Galileo Chini (Firenze 1873 – 1956), contemporaneo degli attori principali di quel tempo di
battaglia estetica, si schierò dalla parte della Secessione viennese e del ‘Modernismo fiorito’
catalano, muovendo da una propria postazione italiana, carica di storia, ma anche dalla sua
vocazione esplorativa, che seppe rinnovarsi innestandosi anche con la cultura visiva
dell’Oriente.
Un anno prima dell’uscita di quel feroce libro che classificava la decorazione come un atto
delittuoso, Galileo Chini aveva allestito la propria vasta esposizione alla Biennale di
Venezia, una mostra che gli diede un successo internazionale e che gli aprì anche il lungo
soggiorno nel Regno del Siam (attuale Thailandia), dove progettò e decorò palazzi reali a
Bangkok e in altre città del paese.
Forse solo al suo ritorno in patria, tra il 1913 e il 1914, si accorse che qualcosa stava
cambiando e che, da quel momento, le sue creazioni avrebbero trovato impiego solo in
architetture ‘retrò’ come nei Grand Hotel, negli stabilimenti termali o entro le rare chiese
che continuavano a domandargli vetrate o decorazioni parietali.
Cionondimeno sia a Galileo che a suo nipote Tito Chini, figlio del cugino, non mancarono le
commissioni e la loro applicazione nel campo della ceramica e delle tarsie vitree non subì
flessione. Si interruppe invece quel legame con l’architettura di ricerca che avrebbe di certo
dato stimoli differenti e aperture imprevedibili alla sua bottega fiorentina. Quella chiusura
ideologica tra le arti generò dunque destini differenti e anche in Italia, durante il Ventennio,
l’architettura razionalista, pur mantenendo un rapporto ‘di propaganda’ con le altre arti, si
allineò con le forme severe e cupe che erano sempre più lontane dallo spirito di Chini.
I disegni esposti a Fano testimoniano un vero talento progettuale e insieme ci raccontano
alcune fasi del lavoro, che prevedevano l’impiego di cartoni preparatori e da ‘spolvero’
eseguiti per trasferire, sui muri o su altre superfici, le forme inventate, in vista della pittura
finale.
I fogli di Galileo dedicati alle vetrate sono un omaggio esplicito a Bisanzio e a quella mitica
‘età dell’oro’, così come i grandi pesci che girano in cerchio o si attorcigliano dentro la
forma di un vaso, sono un lascito del soggiorno asiatico. Vale a dire un ciclo che mette
insieme due epoche storiche molto lontane tra loro, con un altro che invece crea un dialogo
geografico tra due continenti.
I cartoni realizzati da Tito Chini con il Balzo della Gazzella, diviso a metà tra un foglio e
l’altro, sono emblematici di quel procedimento professionale, a partire dal segno lineare che
descrive gli elementi del racconto: le grandi foglie che si dispiegano a ventaglio dai tronchi
delle piante, le fini onde parallele del fiume, l’esercito regolare dei fili d’erba dal quale si
erge la testa dell’arciere che sta scoccando la freccia. Ma è come se questo dittico
contenesse la somma di due stili differenti, nel momento in cui a quel preciso disegno se ne
sovrappone un altro, equivale infatti a un gesto grafico significante anche la strisciata di
nuvola grigia che va a cercare la processionaria di fori della carta da spolvero.
Attraverso queste carte si può comprendere quanto di quella diaspora tra le arti si sarebbe
potuta ricucire e figure, che la critica di parte ha classificato come ritardatarie, hanno invece
perseguito per tutta la vita una ricerca delle forme e dei modi di interpretare la storia
coniugandola al proprio tempo.
Massimo Pulini