La natura obliqua
Ecco spiegato il titolo della nuova mostra che Il Chiostro arte contemporanea ha progettato nell’ambito del suo ciclo di “dialoghi a tre”. Ovvero collettive concentrate sull’incontro ideale fra autori di diverse epoche e linguaggi, accomunati tuttavia da un denominatore sottile, invisibile come gli atomi, eppure determinante. In questo caso, la natura, come specchio di un ordine logico, quasi fisico, presente all’origine delle cose.
Comunicato stampa
Nel De rerum natura, Lucrezio, diceva che «gli atomi cadono in linea retta nel vuoto, in base al proprio peso: in certi momenti, però, essi deviano impercettibilmente la propria traiettoria, finendo per incrociarsi fra loro». Legato ai concetti della fisica epicurea, Lucrezio immaginava così la formazione dei corpi. Come un'aggregazione di particelle solide e indivisibili, capaci di sommarsi per dare origine alle più diverse forme della natura. Una caduta libera nel vuoto, che grazie a un minimo andamento obliquo poteva a suo giudizio, generare la vita.
Ecco allora spiegato il titolo della nuova mostra che Il Chiostro arte contemporanea ha progettato nell'ambito del suo ciclo di “dialoghi a tre”. Ovvero collettive concentrate sull'incontro ideale fra autori di diverse epoche e linguaggi, accomunati tuttavia da un denominatore sottile, invisibile come gli atomi, eppure determinante. In questo caso, la natura, come specchio di un ordine logico, quasi fisico, presente all'origine delle cose. La natura che sboccia da un incrocio di fattori, dallo scontro di molecole in un reticolo di direzioni. La natura che è rigorosa, calcolata, matematica. Ma che, all'interno di questo suo equilibrio perfetto, di questa sua armonia, finisce sempre per stupire, provocare percezioni inattese, incantare con risultati lirici. Lo insegnava Cézanne quando ritraeva il mondo secondo «il cilindro, la sfera, il cono», a caccia di una regola nel visibile, ma senza perdere mai di poesia, sospensione.
Così, Angelo Del Bon, maestro del chiarismo storico, con i suoi colori acquosi, le forme sbriciolate nel colore, delineava paesaggi e nature morte guidato da un sesto senso per la linea, tremula ma precisa, anche lei (come gli atomi di Lucrezio) tesa a incrociare trame in un tessuto impalpabile di riflessi. Più solido, nella composizione e nel contrasto netto fra zone d'ombra e di luce, è il lavoro del grande fotografo Mario Giacomelli, ugualmente impegnato nella ricerca di una logica nella visione del creato, nei suoi campi arati come grafici cartesiani, nelle colline fatte a scacchi, nelle ombre lunghe che, sull'erba, disegnano, tragitti, parabole, prima di sciogliersi nel buio profondo. Allo stesso modo, Alfredo Casali sposa con garbo ragione e poesia nelle sue nature aeree, scorci punteggiati di alberi in assenza di gravità, galleggianti nel vuoto, proprio come particelle in sospensione. Nel sogno o in un equilibrio calcolato. Legge e miracolo di natura. O di pittura.
Alfredo Casali
Alfredo Casali nasce a Piacenza nel 1955. Dopo varie esperienze artistiche tra pittura, poesia visiva e studi filosofici (nel 1983 si laurea a Bologna con Luciano Anceschi), Casali approda a un originale linguaggio fondato su alcuni elementi archetipici ricorrenti all’interno di veri e propri cicli. Sono le case, i tavoli, gli alberi, le nuvole, le lavagne a costituire da ora i riferimenti permanenti di una poetica rarefatta ed essenziale. Tra i primi ad accorgersi e a valorizzare la sua arte è Giovanni Fumagalli, che lo vuole tra gli artisti della sua galleria (la storica Galleria delle Ore di Milano) e che, dal 1986 al 1996, fungerà da guida e da maestro. Nel 1993 è invitato alla XXXII Biennale d’Arte Città di Milano e alla III Biennale di Cremona, dove torna nel 1999 per la VI edizione. Numerose le mostre, anche personali, in Italia e all’estero, fra cui la recente personale al Centro Culturale San Fedele di Milano, la partecipazione alla mostra dedicata a Imre Reiner e all’astrazione internazionale in programma al Museo d’arte di Mendrisio, oltre alla mostra Sogno e Confine, Casali, Cemak, Folon e Giacometti, allestita nel 2012 alla Galleria Biffi di Piacenza.
Angelo Del Bon
Angelo Del Bon nasce a Milano nel 1898. Nel 1922 si diploma a Brera con Ambrogio Alciati e nel 1928 è già invitato alla Biennale di Venezia. L’anno successivo partecipa alla seconda mostra del gruppo di Novecento, ma è anche l’anno in cui stringe amicizia con Edoardo Persico, il critico che definirà le linee di un’arte libera dai canoni di Novecento, da apprezzare più per la spontaneità del linguaggio che non per l’impostazione classicheggiante. Persico rivendica l’importanza del colore, e del colore chiaro in particolare, da cui deriva il nome del gruppo appunto del Chiarismo, così come lo definirono Leonardo Borgese e Guido Piovene. Del Bon, insieme a Francesco De Rocchi, Umberto Lilloni e Adriano Spilimbergo, delineano una tendenza in cui quello che conta non è lo stile, ma il contenuto spirituale, l’ansia esistenziale. Da qui il segno incerto di Del Bon e i suoi colori chiari e acidi, quasi un espressionismo introverso che si traduce in una “tensione senza gridi” come aveva scritto Marina De Stasio in un bel testo per una mostra alla Galleria San Fedele di Milano. Del Bon esegue nel 1933 un affresco per la “Villa Studio di Figini-Pollini alla Triennale e nel 1934 vince il prestigioso Premio Principe Umberto con l’opera Lo Schermidore. Vivrà fino al 1952 tra Milano e Mantova, sviluppando una pittura in cui le figure e le cose sono colte nella dimensione più indifesa ma lirica (Elena Pontiggia). Muore prematuramente a Desio nel 1952. Opere di Del Bon sono esposte permanentemente in collezioni pubbliche milanesi come Museo del Novecento e Casa Boschi di Stefano e in vari musei italiani.
Mario Giacomelli
Mario Giacomelli nato nel 1925 a Senigallia dove è scomparso nel 2000, lavorò tutta la vita nella Tipografia Marchigiana e si dedicò alla fotografia (in gioventù anche alla pittura e alla poesia) soltanto nel tempo libero, fotografando i dintorni di Senigallia. Le sue immagini rappresentano un vero e proprio capitolo nella storia della fotografia. Nel corso degli anni Cinquanta, ma soprattutto dopo che il MoMA di New York acquistò la serie Scanno, nel 1963, Giacomelli acquisì grande fama in Italia e all’estero. Nelle sue foto, quasi sempre in bianco e nero, di cui curò personalmente la stampa fino a portare a galla i segni che più lo interessavano, la realtà era trasfigurata in idee e sensazioni, superando il dibattito allora in corso nella fotografia italiana, fra formalisti e neorealisti. Il segno che ottenne nelle sue stampe è memorabile; i neri carichi e il forte contrasto chiaroscurale hanno contribuito a evidenziare il segno grafico di un paesaggio traghettato in una visione astratta delle sue forme e i suoi confini. Giacomelli ha altresì affrontato temi esistenziali, legati all’iconografia dell’amore e della sofferenza, soprattutto nei lavori a sfondo sociale.